All’Autunno

Tempo di nebbie e d’ubertà matura,
Dell’almo sole amico prediletto;
Tu che, seco, la vite ti dai cura
Di far felice d’uve, intorno al tetto,
E di pomi i muscosi alberi adorni,
Gonfi la zucca, e alle nocciuòle un sapido
Gheriglio infondi, e i frutti empi di nettare,
E ancor fai gemme, ultimi fior per l’api,
Ond’esse credon che coi caldi giorni
Sopra la terra Estate ognor soggiorni,
Per cui trabocca ogni umida celletta:

Chi non ti ha visto tra le tue ricchezze?
Talor chi cerca scopre te: sei colco
Su un’aia, pigro, ventilanti brezze
Fra i tuoi crini asolando; o presso un solco
Mezzo-mietuto, mentre il tuo falcetto
Lascia di tagliar l’erba e i fiori attorti,
T’infondono i papaveri il sopore;
O, attraversando un rivo, il capo eretto,
Come spigolatrice, a volte porti;
O, ad un torchio di sidro, gli occhi assorti
Tu fissi al gemitio per ore ed ore.

Dove son, dove i cantici di Maggio?
Non pensarvi, hai tu pur tua melodia:
Quando, affocando il dì che muor, d’un raggio
Roseo le stoppie opaca nube stria,
Un coro di zanzare si querela
Tra i salci fluviali, in basso o in suso
Spinte, secondo il vento cada o aneli,
E dai borri gli agnelli adulti belano,
Cantano i grilli, ed un gorgheggio effuso
Fa il pettirosso da un giardino chiuso,
Rondini a stormi stridono pei cieli.

(Traduzione di Mario Praz)

Con questo bellissimo componimento, il grande poeta romantico inglese John Keats (1795 – 1821) descrive piccole oggettività autunnali. Questa ciclicità stagionale, che chiude con i mesi freddi, è la ruota della vita stessa; della sua vita, dato che il poeta è gravemente ammalato e consapevole di trovarsi nell’autunno della propria esistenza ancora giovanissimo. Accettata pienamente la sorte, egli non vi si ribella ma si culla nella mera descrizione di ciò che la vita offre, ove l’esistenza di ciascuno ha un profondo significato per sé e per gli altri in un universo pullulante di senso. Ogni autunno, la natura è generosa di eventi gravi e lievi, taluni impercettibili eppure importanti; talvolta, essi sembrano non lasciare traccia alcuna se non accorgendoci noi stessi della loro profondità e del loro senso. La memoria di ciò che è già accaduto ci accompagna nell’osservare ciò che accade, in una ripetizione costante ed infinita. Così, ognuno è al proprio posto nel gioco della vita, come Keats lo è in quel momento. Questo flusso continuo si smorza col calare della luce, con l’avvento del freddo, con la morte stessa. Eppure il ritorno è certo: il chiarore e il tepore accompagneranno la nostra ricomparsa che si manifesterà con certezza e come sempre accaduto, come rondini a Primavera in un ciclo infinito.

Disobbedire

“(…) Il migliore dei governi è quello che non governa affatto, e quando gli uomini saranno pronti, sarà questo il tipo di governo che avranno. Il governo è, nella migliore delle ipotesi, solo un espediente, ma per la maggior parte i governi sono di solito espedienti inutili, e tutti i governi si dimostrano tali in determinate circostanze.

(…) Deve forse il cittadino – anche se per un momento, o in minima parte – affidare sempre la propria coscienza al legislatore? E allora, perché ogni uomo è dotato di una coscienza? A mio avviso, dovremmo essere prima di tutto uomini, e poi cittadini. Non è auspicabile che l’uomo coltivi il rispetto della legge nella stessa misura di quello per ciò che è giusto. Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi è quello di fare sempre e comunque ciò che ritengo giusto.

(…) La legge non ha mai reso gli uomini più giusti, neppure per poco; anzi, a causa del rispetto della legge, perfino le persone oneste sono quotidianamente trasformate in agenti dell’ingiustizia.

(…) Quando un sesto della popolazione di una nazione, che si è impegnata ad essere il rifugio della libertà, è formato da schiavi (…), ritengo che gli uomini onesti debbano senza indugio ribellarsi e fare la rivoluzione.

(…) Qual è il prezzo corrente di un uomo onesto, di un patriota, oggi? Esitano, si rammaricano, e talvolta fanno petizioni; ma non fanno niente con serietà, e in modo efficace. Aspetteranno, ben disposti, che altri pongano rimedio al male, in modo da non doversene più rammaricare. Al massimo, si limitano a dare un voto che poco gli costa, un debole incoraggiamento e un augurio al giusto, quando passa loro vicino. Per ogni uomo retto, ci sono novecentonovantanove patroni della rettitudine.

(…) Quando il cittadino si rifiuta di obbedire, e l’ufficiale dà le dimissioni dal suo incarico, allora la rivoluzione è compiuta. Ma supponiamo pure che debba scorrere il sangue. Non c’è una sorta di sangue versato, quando viene ferita la coscienza? Attraverso questa ferita scorrono via la vera umanità e l’immortalità di un uomo, ed egli sanguina fino a una morte eterna.

(…) Lo Stato non si confronta mai di proposito con il sentimento, intellettuale o morale, di un uomo, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Esso non è dotato di intelligenza o di onestà superiori, ma di superiore forza fisica, Non sono nato per essere costretto. Voglio respirare liberamente. Vediamo chi è il più forte. Che forza ha una moltitudine? Soltanto coloro che obbediscono a una legge più alta della mia possono costringermi.

(…) Non è forse possibile che un individuo sia nel giusto e che un governo abbia torto? Devono essere osservate le leggi semplicemente perché sono state promulgate? O devono essere dichiarate giuste da un qualsivoglia numero di uomini, anche se giuste non sono? E’ necessario che un uomo consenta a farsi strumento per compiere un’azione che la sua migliore natura disapprova?

(…) Siete in grado voi di decidere, o di giungere a una risoluzione qualsiasi, senza accettare le convinzioni che vi vengono imposte, e che superano la vostra capacità di comprensione?”

Henry David Thoreau, Disobbedienza Civile

Penséés

PENSEES

Aprendo questa mattina un libro a caso, i Pensées di Pascal, mi sono imbattuta in queste righe; chi pensa che Pascal avesse una visione pessimistica dell’esistenza sbaglia e di molto. Egli era totalmente certo di cosa fosse fondamentale per l’uomo e di cosa, invece – pur non essendolo – veniva dall’uomo tanto ricercato per dissimulare la morte. Così è ancora oggi.

Pensé 83 – (…) Così scorre via tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo diversi ostacoli; ma, quando si sono superati, il riposo diventa insopportabile; perché si pensa o alle miserie che si hanno, o a quelle che ci minacciano. E quand’anche ci si vedesse abbastanza al riparo da ogni parte, la noia, con la sua autorità privata, non tralascerebbe di affiorare dal profondo del cuore, dove ha radici naturali, e di riempire lo spirito del suo veleno.

Pensé 86 – L’uomo è visibilmente nato per pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo valore; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente. Ora, l’ordine del pensiero è di cominciare da sé, e dal suo autore e dal suo fine.

Ora, a che pensa la gente? Mai a questo, ma a ballare, a suonare il liuto, a cantare, a comporre dei versi, a correre all’anello, ecc., a battersi, a diventare re, senza riflettere su quello che significa essere re, ed essere uomo.

Pensé 100 – La sola cosa che ci consoli delle nostre miserie è la distrazione, e tuttavia essa è la più grande delle nostre miserie, perché ci impedisce in primo luogo di riflettere su noi stessi, e fa in modo che ci perdiamo insensibilmente. Senza di essa, ci troveremmo immersi nella noia, e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più stabile per uscirne. Ma la distrazione ci diverte, e ci fa giungere alla morte insensibilmente.

Pensé 101 – Noi non ci atteniamo mai al tempo presente. Anticipiamo il futuro come troppo lento a venire, come per affrettarne il corso; oppure ricordiamo il passato per fermarlo come troppo rapido; così imprudenti, che erriamo nei tempi che non sono nostri, e non pensiamo affatto al solo che ci appartiene, e così vani, che riflettiamo su quelli che non son più nulla, e fuggiamo senza riflettere quello solo che esiste. Il fatto è che il presente, di solito, ci ferisce. Lo dissimuliamo alla nostra vista perché ci affligge; se invece per noi è piacevole, rimpiangiamo di vederlo fuggire. Tentiamo di sostenerlo per mezzo dell’avvenire, e ci preoccupiamo di disporre le cose che non sono in nostro potere, per un tempo al quale non siamo affatto sicuri di arrivare.

Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre tutti occupati dal passato e dal futuro. Il presente non è mai il nostro fine: il passato e il presente sono i nostri mezzi, solamente il futuro è il nostro fine. In questo modo non viviamo mai, ma speriamo di vivere e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai.

Pensé 114 – (…) Non occorre possedere un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non vi sono punto soddisfazioni veritiere e solide; che tutti i nostri piaceri non sono che vanità, che i nostri mali sono infiniti, e che la morte infine, che ci minaccia in ogni istante, ci metterà infallibilmente entro pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annichiliti o infelici.

Non vi è niente di più reale di questo, né di più terribile. Facciamo gli spavaldi fin che vogliamo: ecco la fine che attende la più felice esistenza del mondo. Si rifletta su questo, e si dica poi se non è indubitabile che non vi è bene in questa vita, se non la speranza nell’altra; che non si è felici che a misura che ci si avvicina a essa e che, come non vi saranno più mali per coloro che sono interamente sicuri dell’eternità, così non vi è felicità per coloro che non ne hanno nessun lume.

(…) Quello stesso uomo che passa tanti giorni e tante notti pieno di rabbia e di disperazione per la perdita di un incarico o per qualche offesa immaginaria al suo onore, è il medesimo che, senza inquietudine e senza emozione, sa che perderà tutto con la morte. E’ mostruoso vedere nello stesso cuore e nello stesso tempo questa sensibilità per le minime cose e questa strana insensibilità per le più grandi. E’ un incantamento incomprensibile.

Esenin

Non sento parlare di poesia; non sento mai che essa sia trattata nei circoli, nei bar, tra la gente comune come un tempo avveniva. Non sento più che i versi siano letti e discussi nelle case, di sera, attorno a un fuoco, o sdraiati su un prato guardandosi negli occhi. Di fronte al mare d’inverno, o ad una luna piena, è ciò che più desidero sia letto e recitato a me da un amico caro, o da un amore sincero. 

Le poesie di Sergéj Aleksàndrovic Esenin, meravigliose, sono di una sensibilità elevatissima. Ne propongo cinque. Trovo che una raccolta di poesie di questo grande poeta russo sia, per me, il più bel regalo di San Valentino. Un regalo deve assomigliarci, deve partire da chi ci ha visto dentro, e in questi temi io mi ritrovo, cominciando dalla prima, che è famosissima e struggente, quanto le altre che ho scelto.

La ballata della cagna

Al mattino nel granaio
dove biondeggiano le stuoie in fila,
una cagna figliò sette,
sette cuccioli rossicci
Sino a sera li carezzava
pettinandoli con la lingua
e la neve disciolta colava
sotto il suo caldo ventre.
Ma a sera, quando le galline
si rannicchiano sul focolare,
venne il padrone accigliato,
tutti e sette li mise in un sacco.
Essa correva sui mucchi di neve,
durando fatica a seguirlo.
E così a lungo, a lungo tremolava
lo specchio dell’acqua non ghiacciata.
E quando tornò trascinandosi appena,
leccando il sudore dai fianchi,
la luna sulla capanna le parve
uno dei suoi cuccioli.
Guardava l’azzurro del cielo
con striduli guaiti,
ma la luna sottile scivolava
e si celò nei campi dietro il colle.
E sordamente, come quando in dono
le si butta una pietra per giuoco,
la cagna rotolò i suoi occhi
come stelle d’oro nella neve.

 

Io ricordo

Io ricordo, o amata, ricordo

Lo splendore dei tuoi capelli,

Senza gioia, con pena

Mi toccò abbandonarti.

Ricordo le notti autunnali,

Il fruscio dell’ombre di betulla.

Fossero stati più brevi i giorni allora

Più a lungo per noi avrebbe avuto splendore la luna.

Ricordo, tu mi dicevi:

‘E tu, o amato, con un’altra

Mi dimenticherai per sempre?’

Oggi il tiglio in fiore

Ha rinnovato i sentimenti,

M’ha ricordato come teneramente

Spargevo di fiore le ciocche ricciute.

E il cuore che mai

Non scema d’ardore

Tristemente amando un’altra,

Come tu fossi la novella preferita,

Con un’altra ti ricorda.

 

Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco

Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.

Care foreste di betulle!
Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.

Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne.
Pace alle betulle che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.

Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.

Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori.

So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.

So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggianti nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.

 

Sono un pastore

Sono un pastore; le mie case sono

le sponde delle pianure ondeggianti,

I pendii per le verdi colline

Con le grida stridenti di beccacce.

Intessono un pizzo sopra il bosco

Di schiuma dorata le nubi,

Nel calmo dormiveglia sul tetto

Sento il fruscio leggero della pineta.

Alla sera splendono verdi

I pioppi umidi.

Sono pastore; le mie case si trovano

Nella verzura dolce delle pianure.

Parlan con me le mucche

Assentendo con la testa

Le foreste profumate

Coi rami chiamano il fiume.

Dimentico dell’umano dolore,

Dormo sulla ramaglia

Prego nei tramonti purpurei,

Mi comunico presso il ruscello.

 

Arrivederci, amico mio, arrivederci

Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Tu sei nel mio cuore.
Una predestinata separazione
Un futuro incontro promette.

Arrivederci, amico mio,
senza strette di mano, senza parole,
Non rattristarti e niente
Malinconia sulle ciglia:
Morire in questa vita non è nuovo,
Ma più nuovo non è nemmeno vivere.

 

Little House on the Prairie

LA CASA NELLA PRATERIA

Alcuni anni fa avevo acquistato l’intera serie de ‘La casa nella Prateria’ nonché letto i bellissimi libri della vera Laura Ingalls Wilder. Non ho mai smesso di adorare questa serie che tutt’ora viene trasmessa e seguita da molti devoti; così, in questi giorni ne ho fatto una full immersion e ho ricompreso, come tutte le volte, il perché io la ami così tanto e perché apra così il cuore. In quel piccolo villaggio della prateria, accade tutto ciò che vediamo accadere attorno a noi, giorno dopo giorno. Ma è la risposta, ad essere un’altra. Sarà forse perché, sempre meno, riscontro i valori presenti in quei telefilm, i valori dei nostri genitori. Si era tra la metà e la fine degli anni ’70, e nelle nostre famiglie quel codice era ancora molto presente. E con questi episodi, si intendeva contribuire a moralizzare il popolo che chiedeva conferma di come dovesse comportarsi, e di cosa fosse importante. Molte delle tematiche affrontate sono incredibilmente attuali: nei casi di accanimento verso un debole, un uomo di colore, un ragazzo sordo, una donna grassa, i protagonisti ne prendono le difese e danno lezioni al paese. Non c’è spazio per tradimento e slealtà, neppure a scuola; non c’è spazio per superficialità e pressapochismo. La vita è una cosa seria, gli altri sono una cosa seria, il lavoro anche, la famiglia pure come gli amici. Gli approfittatori ricevono una dura lezione, come gli egocentrici; coloro che non hanno a cuore il bene della comunità anche. In quel piccolo villaggio, tutti si ammazzano di fatica dalla mattina alla sera ma trovano sempre il modo e il tempo di lavorare anche per chi non riesca. Il denaro occorre solo per il necessario, ma non compra i sentimenti. Gli uomini non scrivono atti giuridici ma si danno la parola e la manterranno costi quel che costi. In quel piccolo villaggio, la codardia non è ammessa e ognuno è chiamato a prendersi la responsabilità delle proprie azioni. I meno benestanti non provano invidia (mentre i più benestanti si), il rispetto è la prima cosa. A nessuno verrebbe in mente di fregare il prossimo per trarne beneficio personale; se lo fa, lo svolgimento della storia lo vedrà pagare un prezzo più alto, redimersi e tornare ad essere una buona persona. Il perdono è comunque concesso a tutti, come le spiegazioni sincere e la comprensione. Accadono molte disgrazie, in quelle famiglie, ma si va avanti sapendo che si è nelle mani di un Dio benevolente. Quel Dio che tutti pregano prima di ogni pasto, per rendere grazie di ciò che hanno sulla tavola. E se una grandinata rovina il raccolto e spinge le famiglie in una ancor più dura realtà, esse sanno che un solo raccolto, nella loro vita, è poca cosa. Ce ne saranno altri.  

Da vedere e da leggere.

LAURA INGALLS

Servitù

boetie

In pieno Umanesimo, mentre si faceva strada l’idea di Uomo come individuale intelligenza, apparve questo scritto di un Etienne de la Boétie neppure diciottenne, che consiglio di leggere e che dovrebbe far parte della biblioteca personale di ognuno.

De la Boètie lascia sgomenti i fini pensatori contemporanei, i quali più facilmente sostenevano che la tirannia è il dominio di uno che sottomette il popolo; per questo filosofo, invece, è l’uomo a desiderare di essere sottomesso. Le cause da lui identificate della servitù volontaria sono quattro:

  1. L’abitudine impartita da famiglia, contesto e tradizione, che contribuisce a cementare l’oblio della libertà;

  2. Le merci dell’industria culturale e gli slogan della propaganda pubblicitaria e politica; (rendiamoci conto che scriveva questo 500 anni prima dei nostri giorni!)

  3. Una certa forma di convenienza, illustrata con l’immagine omerica della ‘corda di Giove’: le briciole e la corruzione che cadono dal tavolo del padrone nutrono una sterminata schiera di subalterni, avvelenando l’intero corpo sociale;

  4. Il mistero, il velo o la maschera, dietro cui da sempre il potere nasconde il proprio volto.

Ed ecco alcuni passaggi molto interessanti, tratti dall’opera, ai quali ho aggiunto dei brevi titoli:

TIPOLOGIE DI TIRANNI

‘Esistono tre tipi di tiranni: alcuni ottengono il regno per elezione da parte del popolo, altri con la forza delle armi, altri ancora per successione di stirpe.
Quelli che lo hanno acquisito per diritto di guerra si comportano in modo da far capire bene che si trovano in una terra di conquista.
Quelli che nascono re non sono in genere migliori; nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno e trattano i popoli loro sottomessi come servi ricevuti in eredità; secondo l’indole cui sono più inclini, avari o prodighi, dispongono del regno come del loro lascito.
Quelli a cui il popolo ha fatto dono dello Stato dovrebbe essere invece, così mi pare, il più sopportabile; e lo sarebbe, credo, se, non appena si vede innalzato sopra agli altri, lusingato da quel non so che è chiamato grandezza, non decidesse di non togliersi più di lì. Un tipo del genere, di solito, cerca infatti di trasmettere ai propri figli il potere che il popolo gli ha concesso. E una volta convintosi di questa opinione, è straordinario vedere di quanto superi gli altri tiranni in ogni sorta di vizio e persino di crudeltà, non scorgendo altro mezzo per garantire la nuova tirannia se non serrare con tale forza la morsa della servitù.
Il modo di regnare, invece, è sempre lo stesso; gli eletti trattano i loro sudditi come se avessero di fronte dei tori da domare; i conquistatori come se fossero la loro preda; i successori pensando di farne i propri schiavi naturali.’

MODALITA’

‘L’astuzia dei tiranni nell’abbrutire i propri sudditi si dà a vedere nel modo più chiaro in quel che Ciro fece ai Lidi, dopo essersi impadronito di Sardi, la capitale, e avere catturato e preso in suo potere Creso, il più ricco dei re. Gli giunse la notizia che gli abitanti di Sardi si erano rivoltati; li avrebbe facilmente riavuti in pugno, ma non volendo mettere a ferro e fuoco una città tanto bella, né darsi la pena di avere sempre un’armata a presidiarla, escogitò un grande espediente per assicurarsela: fece aprire bordelli, taverne e sale da gioco, emanando un’ordinanza che obbligava gli abitanti a frequentarli. Fu talmente soddisfatto di questa nuova guarnigione che da allora in poi non fu più necessario tirare un solo colpo di spada contro i Lidi. Questi poveri miserabili si divertivano infatti a inventare ogni sorta di gioco, al punto che i Latini, per indicare quelli che noi chiamiamo passatempi, inventarono la parola ludi, come a voler pronunciare gli abitanti della Lidia.
I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i dipinti e altre droghe di questo genere rappresentavano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Erano questi i mezzi, le pratiche, le lusinghe che gli antichi tiranni avevano a disposizione per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovano belli questi passatempi, divertendosi con il vano piacere che gli balenava davanti agli occhi, si abituavano a servire in modo altrettanto sciocco, se non peggiore, dei bambini, che imparano a leggere guardando le figure luccicanti dei libri miniati.’

RUFFIANI

‘Sono i complici della crudeltà del capo, il quale dovrà essere malvagio non soltanto per via della propria malvagità, bensì anche per via della loro. Ci sono sempre almeno sei ruffiani, e questi hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione della spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenze.
Grande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda, avvalendosi d’essa come Giove in Omero, che si vantava di poter tirare a sé tutti gli dei con uno strattone di catena. Nasce da qui l’ampliamento del senato sotto Giulio Cesare, l’istituzione di nuove cariche, la creazione di nuovi uffici: non certo, a guardar bene, dall’esigenza di riformare la giustizia, ma per creare nuove basi alla tirannia. Tra favori grandi e piccoli, tra guadagni e maneggi legati al tiranno, si arriva insomma al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta quasi uguale a quello di chi preferirebbe la libertà.’

SERVITU’

‘Due uomini possono temerne uno, e persino dieci possono farlo; ma se mille, se un milione, se mille città non si difendono da un uomo solo, non può essere per codardia; questa non arriva a tanto, così come l’audacia non riesce a far sì che un solo uomo espugni una fortezza, assalti un esercito, conquisti un regno. Quale vizio mostruoso sarà allora mai questo, che non merita nemmeno la qualifica di codardia, che la natura rinnega di avere creato e la lingua rifiuta di nominare?
In realtà, cos’altro significa accostarsi a un tiranno se non allontanarsi dalla propria libertà e stringere a piene mani la propria servitù?
Infatti, sebbene asserviti, il contadino e l’artigiano sono tranquilli dopo avere eseguito ciò che gli è stato detto; il tiranno invece non perde mai di vista quanti gli stanno attorno, brigando e mendicando il proprio favore: non basta soltanto che facciano quel che dice, devono anche pensare quel che lui vuole e, spesso, per soddisfarlo, devono anche anticipare i suoi pensieri. Il loro compito non si esaurisce insomma nell’obbedirgli, devono anche compiacerlo; devono macerarsi, tormentarsi, ammazzarsi di lavoro per le sue faccende, per poi godere dei suoi piaceri, sacrificare il loro gusto al suo, forzare la loro indole, spogliarsi della propria natura.
Costoro vogliono servire per avere delle ricchezze: come se qualcosa potesse mai appartenere a chi non può dire di appartenersi; come se qualcuno potesse avere qualcosa di proprio sotto un tiranno. Vogliono atteggiarsi a padroni delle loro ricchezze, non ricordandosi che sono loro a dare al tiranno la forza di prendere tutto a tutti, senza lasciare più nulla che possa dirsi di qualcuno.
Di certo il tiranno non è mai amato, né ama. Amicizia è una parola sacra, una cosa santa; non si dà che tra uomini dabbene e non si riceve se non per stima reciproca; si stringe non in vista di vantaggi, ma di una vita buona: quel che rende un amico affidabile è la consapevolezza della sua integrità; ne sono garanzia la buona indole, la fiducia e la costanza. Non può esserci amicizia là dove c’è slealtà, là dove c’è ingiustizia; e quando i malvagi si riuniscono, si tratta di un complotto, non di una compagnia: non si amano, bensì si temono l’un l’altro; non sono amici, bensì sono complici. Questi miserabili vedono scintillare i tesori del tiranno e rimirano sbalorditi i raggi del suo fasto; adescati da questo bagliore, si avvicinano e non vedono che stanno gettandosi in una fiamma che inevitabilmente li consumerà.’

Si ha l’impressione che de la Boètie descriva alcuni personaggi che abbiamo sotto gli occhi. Se ognuno può sostenere la stessa cosa, ecco stabilita la validità di questo scritto: c’è troppa gente così in giro, che si muove per il proprio esclusivo tornaconto vendendo l’anima e, di conseguenza, la propria libertà e quella collettiva.

Rientro

FINESTRE

Ed ora mi tocca rientrare al lavoro e spero che nessuno mi chieda se mi sono riposata, o mi faccia le solite inutili domande.

No, non mi sono riposata molto, però ho fatto diverse cose che desideravo fare.

Leggere: moltissimo;

Scrivere: anche;

Svegliarsi presto al mattino per godere delle prime luci: meno di quanto avrei voluto;

Andare a letto tardissimo: più di quanto avrei voluto;

Chiacchierare: a volte troppo;

Pensare: ovviamente;

Ascoltare musica: si, bretone;

Osservare e meditare: molto;

Restare in silenzio e scatenare la mia creatività: davvero tanto;

Acquarellare: si;

Ascoltare e guardare le piogge estive: tantissimo;

Approfondire: molto, soprattutto temi sulla questione animale;

Seguire la crisi di governo: zero.

Seguire le crisi del Pianeta, gli incendi, le devastazioni: si, purtroppo, ma ho anche preso delle decisioni in merito.

Dipingere: un casino.

Dato che le persone che mi vedono spesso, notano che mi vesto molto di nero (quasi sempre, in effetti), sappiano che, invece, quando si tratta delle mie case io esagero nei colori. Pitturare oggetti, togliere loro il grigiore e l’anonimato e renderli ridenti di colore, è una mia passione. Fosse per me andrei in giro a dipingere l’intero paese, anzi un giorno comincerò a farlo: portoncini blu, panchine azzurre, staccionate lilla, e fiori a profusione. Dipingerei anche gli asfalti, magari di rosa cipria, e tutti i cancelli di fucsia. E allora: perché lasciare che le porte del mio fienile restino di color marrone, quando si potrebbero colorare di lilla? E perché le finestre, anziché di bianco o di grigio, non dovrei dipingerle di color pervinca? Questo è ciò che ho fatto, insieme ad altri lavori. Poi, il solito giro in discarica per buttare quanto accumulato recentemente. Ma, questa volta, con lo sguardo basso e senza lasciarmi tentare dai grandi container dove la gente butta i mobili interi: tavolini, comodini, sedie, e poi l’angolo degli strumenti elettrici, dove talvolta si può trovare qualche lampada da reinventare. No, mi sono detta, quest’anno non mi porto a casa nulla, o resterò sepolta di cose da restaurare e dipingere per i prossimi dieci anni. Mi devo dare una regolata. Ho portato a casa, però, 4 seggioline di legno troppo piccole per sedervisi, a meno di non essere dei nani, e so già cosa farne e come decorarle. Da questa casa porto oggetti nell’altra, dall’altra porto oggetti in questa, è un continuo spostare, un continuo riposizionare. Le due case si parlano attraverso la mia inquietudine.

E poi, liste di cose da fare, cose da progettare, gente da incontrare, corsi a cui iscriversi, e viaggi, e gite, e occasioni, e ancora lavori, e letture, e ascolti, e intenzioni. Liste e liste che ho riordinato una volta a casa. Non ho mancato di tirare le somme rispetto alle liste dello scorso anno, e devo dire che sono riuscita a centrare quasi tutti gli obiettivi e i desideri. Non male, mi sono fatta i complimenti da sola.

Eudemonia

ARISTOTELE

Secondo Aristotele e il suo sistema di etica della virtù, il segreto della felicità si trova nell’equilibrio che ci permette di raggiungere l’Eudemonia (dal greco eudaimonia, eu-buono e daimon, demone o spirito buono).

Nell’Etica Nicomachea, il suo libro più noto scritto nel IV secolo a.C., egli elenca le virtù:

Mitezza: è la capacità di controllare il nostro temperamento e le prime reazioni. La persona paziente non si arrabbia troppo, ma non evita neppure di arrabbiarsi quando ne ha le ragioni. 

Forza: è il punto medio tra codardia e imprudenza. La persona forte è quella che affronta il pericolo, essendo consapevole dei rischi e prendendo le necessarie precauzioni. Si tratta di non assumere rischi inutili, ma neppure evitare i rischi necessari per crescere.

Tolleranza: è l’equilibrio tra l’eccessiva indulgenza e l’intransigenza. Aristotele pensava che fosse importante tollerare, ma senza cadere nell’estremo di tollerare tutto, lasciando che gli altri calpestino i nostri diritti o ci feriscano deliberatamente senza risponderne. E’ tanto negativo essere estremamente tollerante quanto estremamente intollerante.

Generosità: è il punto centrale tra meschinità e prodigalità; si tratta di aiutare gli altri ma non concedersi al punto che il nostro io ne risulti diluito.

Modestia: è la virtù intermedia tra non riconoscersi sufficiente credito per i risultati ottenuti a causa di una bassa autostima e l’ego eccessivo che ci fa pensare di essere il centro dell’universo. Si tratta di riconoscere i nostri errori e le nostre virtù, assumendo le responsabilità che ci corrispondono.

Veracità:  è la virtù dell’onestà, che Aristotele colloca a metà strada tra la menzogna abituale e la mancanza di tatto nel dire la verità. Si tratta di valutare lo scopo delle nostre parole e dire ciò che è necessario.

Grazia: è il punto intermedio tra l’essere un buffone ed essere antipatico e maleducato, ovvero essere in modo tale che gli altri possano godere della nostra compagnia.

Decenza:  è il punto intermedio tra l’essere troppo timido e l’essere spudorato.

Equità: è la virtù di trattare in modo equo gli altri, a metà strada tra l’altruismo e il totale disinteresse. Consiste nel saper prendere in considerazione sia i bisogni degli altri che i propri.

Beh, devo dire che negli ultimi anni il mio grado di mitezza è cresciuto a dismisura, sono però ancora molto brava a prendermi rischi inutili (e comunque temo molto più la codardia) e tollero ‘quasi’ tutto. In pratica non sono esattamente equilibrata rispetto a queste voci, ma forse verso nessuna. Sull’onestà, però, non si discute.

Disuguaglianza

ORIGINE DELLA DISUGUAGLIANZA

‘Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti’!

Così ha inizio la seconda parte dell’opera di J.J. Rousseau Origine della disuguaglianza. Per Rousseau, la disuguaglianza non è un fatto naturale, bensì è indotto dalla civiltà dell’uomo. L’uomo di natura, che non coincide con il selvaggio, è il perfetto equilibrio tra i bisogni e le risorse di cui dispone. In pratica, ai bisogni minimi provvede la natura e, dunque, essi sono facili da soddisfare. In questa condizione, l’uomo desidera solo ciò che possiede e vive in un eterno presente. Nello stato di natura ciascuno basta a se stesso e i contatti con i propri simili sono soltanto sporadici.

Fu quando l’uomo fece le prime scoperte e divenne pescatore e cacciatore, che cominciò a unirsi con i suoi simili in libere associazioni. Questo passaggio implicò la nascita dell’impegno reciproco, che portò successivamente alla costituzione della famiglia e di altre forme di aggregazione.

Ecco altri passaggi dell’opera:

‘Non appena gli uomini ebbero cominciato a stimarsi a vicenda e si fu formata nella loro mente l’idea di stima, ognuno pretese di avervi diritto, e a nessuno fu più possibile farne a meno impunemente (…). Da ciò derivarono i primi doveri della civiltà; ne derivò che ogni torto volontario divenne un oltraggio, perché insieme al male derivante dall’ingiuria l’offeso vi scorgeva il disprezzo per la sua persona, spesso più insopportabile dello stesso male. Così, poiché ognuno puniva il disprezzo che gli era stato testimoniato in proporzione della stima che aveva di se stesso, le vendette divennero terribili e gli uomini sanguinari e crudeli’.

‘Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto dell’altro, l’uguaglianza scomparve. Si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò innaffiare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria’.

Insieme con la proprietà si consolidò in maniera definitiva anche la disuguaglianza morale e politica, affermando la prima grande distinzione tra ricchi e poveri. Infine, con lo sviluppo di tutte le facoltà dell’uomo, quali la ricchezza, la bellezza, l’intelligenza, la forza, l’astuzia, ‘ben presto fu necessario o averle o simularle. Per il proprio tornaconto fu necessario mostrarsi diversi da quello che si era effettivamente – essere e parere divennero due cose affatto diverse, e da questa diversità ebbero origine il fato che getta fumo negli occhi, l’astuzia che inganna e tutti i vizi che li accompagnano. D’altro lato l’uomo, da libero e indipendente che era prima, eccolo, a causa di una quantità di nuovi bisogni, asservito per così dire a tutta la natura, e soprattutto ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo anche quando ne diviene il padrone: se è ricco, ha bisogno dei loro servizi; se è povero, ha bisogno del loro soccorso’.

‘E infine l’ambizione divorante, l’intenso desiderio di elevare la propria condizione (non tanto per un vero bisogno quanto per mettersi al di sopra degli altri), ispira a tutti gli uomini una triste inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia tanto più dannosa in quanto, per agire con più sicurezza, si mette spesso la maschera della benevolenza (…) e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a danno degli altri’.

‘I ricchi, dal canto loro, non appena conobbero il piacere di dominare, disprezzarono tutti gli altri e, servendosi degli schiavi che avevano già per sottometterne dei nuovi, non pensarono che a soggiogare e asservire i loro vicini, simili a quei lupi affamati che, avendo una volta gustato la carne umana, sdegnano qualunque altro nutrimento e vogliono soltanto divorare uomini’.

‘Ignorate dunque che una moltitudine di vostri fratelli perisce o soffre per la mancanza di ciò che voi avete di troppo e che vi sarebbe occorso un consenso esplicito e unanime di tutto il genere umano per appropriarvi tutto ciò che dei mezzi di sussistenza comune sorpassa la vostra sussistenza? I ricchi stimano le cose di cui fruiscono soltanto nella misura che gli altri ne sono privi, e che, senza cambiare di stato, cesserebbero di essere felici se il popolo cessasse di essere miserabile’.

‘Per legge di natura, il padre non è il padrone del figlio se non per il tempo che a quest’ultimo è necessario il suo aiuto, e dopo questo termine essi divengono uguali e allora il figlio, del tutto indipendente dal padre, gli deve, si, rispetto, ma non obbedienza, poiché la riconoscenza è certo un dovere cui bisogna adempiere, ma non un diritto che si possa esigere. I beni del padre sono i legami che trattengono i figli alle sue dipendenze, ed egli non può far loro parte della sua eredità se non in proporzione alla continua deferenza alle sue volontà. I sudditi, invece, appartengono al despota con tutto ciò che possiedono, e sono ridotti a ricevere come una grazia ciò che egli lascia loro, così che il despota fa giustizia quando li spoglia e fa grazia quando li lascia vivere. La sommossa è quindi un atto giuridico: la sola forza lo teneva in piedi, la sola forza lo rovescia’.

Infine, quest’ultima chicca:

‘L’uomo selvaggio e l’uomo incivilito differiscono talmente nel fondo del cuore e nelle inclinazioni, che quello che costituisce la felicità suprema dell’uno riduce l’altro alla disperazione. Il primo non desidera altro che quiete e libertà; invece, il cittadino è sempre attivo, suda, si agita, si tormenta, lavora fino a morire, e anzi corre alla morte per mettersi in condizioni di vivere; fa la corte ai potenti che odia e ai ricchi che disprezza, non bada a spese per ottenere l’onore di servirli, si vanta con orgoglio della sua bassezza e della loro protezione: e, fiero della sua schiavitù, parla con disprezzo di quelli che non hanno l’onore di condividerla. E questa è, difatto, la vera causa di tutte queste differenze: che il selvaggio vive in se stesso, mentre l’uomo socievole, sempre fuori di sé, invece sa vivere soltanto nell’opinione degli altri, ed è, è, per così dire, soltanto dal loro giudizio ch’egli trae il sentimento della propria esistenza’.

Quel che resta del giorno

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO 1QUEL CHE RESTA DEL GIORNO 2

Non è che un premio Nobel determini automaticamente il nostro entusiasmo verso le sue opere. A volte, i migliori ingredienti non bastano; a volte ciascuno di noi cerca altro, qualcosa di personale in cui rispecchiarsi, qualcosa che ricalchi la nostra stessa esistenza. Conoscevo a menadito il film di James Ivory, perché ho un debole per i paesaggi inglesi, per quelle magnifiche residenze, per le storie ai piani bassi come a quelli alti, soprattutto perché si tratta di un grandissimo capolavoro con un duo Hopkins/Thompson strepitoso. Lei è la mia attrice preferita da sempre. Ma questa volta, libro e film fanno a gara tra loro, una bella lotta tra due capolavori assoluti. Ho letto, dunque, il libro di Kazuo Ishiguro. Avete presente quando si legge un libro, lo si deve mettere giù per qualche impellente motivo, tipo mangiare, ma si continua ad averne negli occhi le scene? E ci si sente dentro, quelle scene, a muoversi con loro, a sentire cosa stanno dicendo mentre si salgono e si scendono le scale? E quando quel libro lo si riesce a riprendere in mano, sentiamo di esserci ricongiunti con tutto ciò che ci stava importando? Ecco, quando capita questo, abbiamo tra le mani un capolavoro. Abbiamo tra le mani quella storia in cui desideriamo esser dentro. Quando non ci basta leggerla ma avremmo voluto essere lì, a cogliere quelle sfumature perfette, quei dialoghi sopraffini, quelle movenze, quegli sguardi.

Non saprei da che parte iniziare a descriverne le chicche, ma quel linguaggio del maggiordomo, Mr Stevens, ricco dei ‘Niente affatto’, ‘ Se volete scusarmi’, ‘vi sarei grato’, ecc., unito a quel rigore, a quell’imperturbabilità del suo ruolo, mi ha fatto impazzire in entrambe le opere. Vorrei conoscere Mr Stevens personalmente, vorrei che mi parlasse così, che mi mostrasse la sua totale dignità al disotto della quale intravedere le sue emozioni.

E i battibecchi tra Mr Stevens e Miss Kenton, la governante, che maestria! Dialoghi degni dei grandi autori del ‘700 e ‘800.

E i luoghi, quelle distese di prato inglese, quei paesaggi campestri di fiori e piccoli villaggi. Un giorno comprerò anch’io una residenza come quella, con una biblioteca così: scaffali altri metri e metri zeppi di libri magnificamente rilegati, che sanno di polvere, nei quali immergersi per giorni senza mai riapparire alla luce del sole. Dopo tutto questo, e dopo lo svolgimento di un intreccio concepito alla perfezione, che magari non rivelo, le ultime pagine sono particolarmente toccanti, in quanto spiegano il senso dello scorrere della vita, quel che resta, appunto, del giorno. E’ la sera, quando si è soddisfatti di ciò che nella giornata è stato fatto, ed è l’età avanzata, quando si pensa di aver ormai compiuto le esperienze più importanti e significative della nostra vita. Ma, guardandosi indietro, a debita distanza dagli avvenimenti, rimane a volte la sensazione che determinati piccoli accadimenti abbiano in realtà rappresentato delle svolte cruciali nella nostra vita, anche se in quei precisi momenti non se ne aveva la stessa impressione. Sono queste le riflessioni di Mr Stevens, e a dire il vero anche le mie. Ci si chiede come sarebbe stato se questo e quello non fosse accaduto, se altro fosse proseguito, e via discorrendo. Mr Stevens sostiene che non sia importante fare troppe congetture, ma a parlare per lui è la sua stessa dignità; anche la sua è una vita di rimpianti che tollera soffrendo in silenzio. Meraviglioso!