Caspar David Friedrich, 1818, olio su tela, 98,4 x 74,8 cm, Hamburger Kunsthalle Amburgo
Mese: Maggio 2018
Tollerare
Si fa un gran parlare, oggi, di tolleranza. E’ un termine che imprigiona, che inscatola e alza delle barriere anziché abbassarle. Chiedere a qualcuno di tollerare l’altro, significa chiedergli di sopportarne l’esistenza, attribuendogli il potere di decidere se volerlo fare o no e in quale misura. Tollerare significherebbe che io sono o vivo in un modo e l’altro vada tollerato per essere o vivere in un altro. E’ un termine già violento di per sé.
Così, dobbiamo essere tolleranti verso l’extracomunitario, l’omosessuale, il diversamente abile, colui che pratica un’altra religione, il ragazzino che alle medie porta gli occhiali. In realtà, non ci sarebbe nulla da tollerare, nulla di cui essere tolleranti, e assolutamente nulla da accettare. Ognuno è se stesso, ed è già molto se lungo la sua intera esistenza riesca a comprendere il senso di sé, figuriamoci se debba perdere il proprio tempo prezioso per spiegare qualcosa ad altri, se questi non ci sono arrivati spontaneamente. Ognuno dovrebbe sentirsi particolarmente fortunato se, come credo io, attraverso l’infinita trasmigrazione dell’anima, ottenga di conoscere il motivo vero della propria missione.
Non sta ad un altro tollerarlo né accettarlo, sia questi un genitore, un compagno di scuola, un membro qualunque della società. Non è richiesta accettazione alcuna perché l’accettazione si afferma con l’esistenza stessa. Se io esisto, se la mia anima c’è (e c’è), io sono accettato per definizione. Ci chiediamo se un albero vada accettato? Sarebbe presunzione pura. Un albero, di quella specifica tipologia e forma, semplicemente è, né chiede di essere accettato da alcuno. E’ la sua stessa esistenza a determinare la sua ragione di essere. Esso è funzionale a tutto il creato, come ciascuno di noi, e i termini come accettazione e tolleranza vengono in esso trascesi.
Non lo chiede, non lo pretende, non riconosce il senso di questi termini. Così per ogni altra creatura. Ciascuno, tra noi, che teme l’intolleranza di altri, si sta confrontando all’interno di una categorizzazione tra umani che lo pone in una posizione di svantaggio, e trascorre la propria esistenza nel voler convincere l’altro meno evoluto. Il mio messaggio a tutte queste creature, che spesso soffrono, è di alzare lo sguardo in una prospettiva molto più alta. Si chiedano solo se per un albero, un animale, una stella, un torrente, essi siano ritenuti perfetti, e si diano la risposta. L’unica risposta. A loro va il mio abbraccio.
Parlo di te al silenzio
Tempo fa ho ritrovato alcune lettere di un mio innamorato di un tempo. Moltissime lettere. Non me ne vorrà, questa cara persona, se pubblico una splendida poesia che aveva scritto per me, perché lo merita. Bei ricordi.
Parlo di te al silenzio, nell’illusione
che lo scandire lento delle ore
svanisca nell’intrecciarsi dei miei
pensieri fiaccati da questa perdizione
so che l’amore brucia il tempo e
una cappa d’affanno m’incombe…
pensarti… ma non più rivederti
fuggo il dolore che preme il mio
povero cuore, e di te mi appaiono
solo ombre invisibili avare di
ricordi.
Con terrore mi avvinghio alla tua
immagine legata ad un giorno
forse troppo breve.
Non ha pace questo amore
che mi tormenta oltre ogni limite,
viverlo adesso è il mio destino,
saperlo per sempre è certezza
di dormire all’ombra del tuo dolce
sorriso.
INGOZZATE VOI STESSI
C’è qualcosa che non quadra nella definizione che la Treccani offre per il termine ‘Umanità’.
Umanità: Sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini.
Ma come? Quindi quando utilizziamo questo termine riferendoci ad altri esseri senzienti , lo utilizziamo impropriamente? Ok, allora ditemi qual’è quel termine che si può utilizzare quando si vuole intendere l’uso delle migliori qualità umane verso un essere senziente non-umano.
A nessun uomo degno di questo nome, dotato cioè di umanità, dovrebbe venire in mente di ingozzare due volte al giorno delle anatre da fois-gras, introducendo loro una pompa idraulica che va dritta fino allo stomaco e inducendo la steatosi del fegato, cioè facendole appositamente ammalare, per poi sgozzarle dopo 80 giorni in cui sono tenute in gabbie affollate, senza poter, per la loro breve esistenza, alzarsi o aprire le ali.
Questa pratica fa schifo, come del resto fa schifo il fois-gras stesso, diciamolo pure. Fa schifo il suo sapore, fa schifo il fatto che ci si starebbe cibando di una malattia, fa schifo il non chiedersi nulla, l’ignorare tutto, il sapere ma fregarsene. Nessun cibo che richiede violenza va consumato. Nessuno. Ci viene richiesto dalla tradizione culinaria? E chissenefrega! Ci viene richiesto dai precetti religiosi? Al diavolo tutti i precetti di tutte le religioni. Abbiamo o no una coscienza? Allora possiamo decidere da soli senza che ci venga detto da qualcuno che si fa così perché è così che si è sempre fatto, è così che ci si è sempre cibati. Non facciamocelo bastare. Decidiamo noi se il nostro cibo deve derivare da una violenza di questo tipo o se possiamo farne a meno.
Non sono contraria alla pratica dell’ingozzamento. Semplicemente, ognuno ingozzi se stesso e non altre creature.
Su Facebook, Instagram, Twitter, & Co.
Che Facebook ospiti anche gruppi che si scambiano aggiornamenti su questioni di rilievo è vero. Ma l’utilizzo più diffuso è probabilmente quello che riduce molte persone a diffondere l’immagine di sé, di ciò che mangiano e dei luoghi di vacanza. In realtà, non la vera immagine di sé, ma di quell’immagine che vorrebbero offrire. Foto in posa, sempre sorridenti, sempre con un aspetto felice di chi è stra-fortunato perché è bello, ricco, ha una splendida famiglia in cui tutti sorridono sempre, si amano alla follia da 50 anni e non fanno che programmare vacanze in luoghi con le palme. Una grande vetrina in cui si sgomita per apparire. La misura, quindi, del nostro valore e della nostra felicità consisterebbe in quanti stupidi commenti si ricevono dal solito giro di gente e da quanti like o cuoricini riceviamo per esserci mostrati in un luogo di vacanza.
Dal mio punto di vista, ma fortunatamente sempre di un numero maggiore di persone, questo comportamento massificato rispecchia esattamente ciò che altri vogliono: mantenere milioni di persone in uno stato di perenne incoscienza concentrandole sul proprio narcisismo, così da non essere in grado di pensare ad altro (o semplicemente di pensare), soprattutto a tutto ciò che sta affliggendo l’umanità e che meriterebbe una mega rivoluzione planetaria. E’ una trappola che agisce su due fronti:
Da un lato, appunto, impegnando in questo modo e instillando una sorta di competizione tra esseri, forse già un po’ vacui di loro, in una corsa all’apparire, perdendo di vista la capacità di sopportazione del dolore e della ricerca di se stessi e della propria consapevolezza. Una fuga dalla normalità che viviamo come un ‘troppo poco’. Questo dover apparire è strettamente legato ai consumi che ci vengono richiesti e per poter garantire questi consumi non è opportuno che si sia dei pensanti.
Dall’altro, questo comportamento ci porta a dipendere dall’accettazione dagli altri, da questi ‘altri’ di cui in realtà non ce ne frega nulla ma dalle cui pubbliche lodi si dipende. In questo modo, ci si rende più fragili e si pensa che l’acclamazione sia fondamentale, così come la condivisione di qualsiasi contenuto della nostra vita, perlomeno di ciò che vogliamo mostrare per come lo vogliamo mostrare. Si vuole essere ammirati e invidiati. Perché? Perché la vita che conduciamo e la percezione di noi stessi e della nostra felicità viene fatta viaggiare su questi binari. Si è felici se si fanno molte stupide vacanze in luoghi con le palme, oppure se si va spesso al ristorante, o ancora se si sorride molto nelle foto. Si è felici se lo si scrive agli altri, tanto non potranno mai confutare nulla e noi otteniamo di crederci per loro tramite. Gli altri ci fanno da specchio
I cosiddetti ‘amici’, ovviamente a centinaia benché tutti sappiamo che gli amici si possono contare si e no su mezza mano, irretiti nello stesso stupido gioco, rispondono con un like o con un commento in linea con la pochezza dell’argomento. Saranno veri quei commenti? Saranno davvero sempre sinceri? Se ciò che si vede su Facebook fosse vero, la nostra società sarebbe pienamente realizzata, felice se non illuminata. Dovremmo accorgerci di essere circondati da gente che prova una profonda felicità, un benessere supremo e illimitato, come nemmeno il Buddha. Se il benessere fosse misurato da ciò che appare, allora non dovrebbero esistere né psicoanalisti o psicologi, né confessori o confidenti, perché nessun nostro comportamento necessiterebbe di un’elaborazione o di un perdono, né di scuse o sotterfugi, e nemmeno di ansiolitici. La realtà è estremamente più lontana da questo modello che sta intervenendo pesantemente e trasformando la società. Il fenomeno è tutt’altro che da sottovalutare. Si pensa che, in fondo, non si stia facendo nulla di male se non condividere qualcosa con qualcuno, ma non è questo il punto; non è la descrizione della propria gita a Roma o chissà dove, ma è il fatto che non si è più in grado di fare una passeggiata senza volerla mostrare, non si è più in grado di prescindere dalla falsa condivisione e dai falsi like (si, falsi). Sparisce il senso della propria vita vissuta come evento unico, personale, intimo, un po’ da ricordare e un po’ anche da dimenticare.
Se si tratta di veri amici, essi già ci conoscono, già condividono con noi gioie e dolori, già si complimentano per i nostri successi o ci rimproverano per i nostri errori. I nostri amici condividono già con noi i nostri momenti ma, di noi, conoscono anche le debolezze e le incazzature. Non abbiamo bisogno di far loro credere di essere alle stelle se alle stelle non ci siamo ancora arrivati. I 500, 1000 2000 amici non sono tali, sono un carrozzone di gentucola che nulla ha a che fare con noi, che non ci conosce affatto e non ci vede quando piangiamo, perché prima ci siamo disconnessi. Abbiamo bisogno di questo? Io personalmente proprio no. Sono ancora troppo attenta alle espressioni di un viso, ad un cenno di commozione, ad un sorriso falso e forzato, per potermi far bastare un like virtuale. Vuoi mettere il guardarsi negli occhi? Vuoi mettere raccontare ad una persona che la nostra vita è un casino da sempre ed è da sempre che cerchiamo di aggiustarla in qualche maniera e da sempre non ci riusciamo? Vuoi mettere lo scoprire che la persona a cui lo diciamo è più fragile di te e sperava proprio di poterne parlare con qualcuno? Vuoi mettere scegliersi sul serio, lasciando fuori dalla nostra vita tutti gli altri, tutta l’accozzaglia degli imbucati che non desideriamo avere attorno, a cui non vogliamo raccontare di noi e ai quali non vogliamo chiedere se gradiscono com’è nostro figlio?
Difficile? Del resto, a quelle persone non chiediamo un reale commento, ma il commento che sono tenuti a elargire, pena l’espulsione dal branco. Lì, su Facebook, scatta una diversa predisposizione a sbirciare la vita degli altri che, sia essa ricca o insulsa, viene comunque mostrata come interessante. Cerchiamo un riconoscimento pubblico perché non sappiamo più riconoscerci autonomamente.
Quanto all’uso di Linked In, che in teoria dovrebbe ospitare profili professionali, non è del tutto diverso nella misura in cui vi si scrivano cose non vere. Conosco persone (ma parecchie) che sono dei semplicissimi impiegati ma su Linked In sembra dirigano la Nasa (e non sto giudicando l’una o l’altra professione). E così per Twitter, dove ci si esercita ad esprimere qualunque concetto in poche parole, dimenticando la bellezza di un racconto e di un approfondimento. Molte persone non scrivono nulla di proprio, ma si limitano a ritwittare cose di altri. Ma dico io: ma tu una tua frase non sei proprio capace di scriverla? Qualcosa che esca da te e che sia frutto del tuo unico pensiero?
Ricapitolando: su Facebook mostriamo la vita come vorremmo che fosse, su Linked In ciò che vorremmo fare e su Twitter ciò che vorremmo saper dire. In nessuno dei tre casi, però, siamo noi quelle persone e dimentichiamo che, ciò che siamo veramente, che facciamo o che sapremmo dire è di gran lunga migliore. Ci basterebbe un po’ di coraggio in più.
Ecco perché non ho alcun profilo.