In quella grande casa, una stanza sarà segreta come quella dei migliori romanzi. Mi ci recherò solo io chiudendo la porta dietro di me. Sarà un luogo di contemplazione, lettura, preghiera, meditazione, creazione, silenzio. Le pareti ospiteranno volti e parole. Su una, in bella calligrafia, questo Inno Agli Alberi di Hugo. Affacciandomi dalla finestrella, nel punto alto della casa, vedrò quel bosco così amato, così generoso e amico. E non saprò resistere dal discendere i piani velocemente e, in quel bosco, immergermi di luci e di fruscii, di carezze e di sussurri, alzando lo sguardo per cogliere la possenza di un albero, o sedermi ad ascoltare la sua voce.
Non rumori ma messaggi, non parole ma vibrazioni. E profumi. E respiri all’unisono. E pace.
Agli alberi
Alberi della foresta, voi conoscete il mio animo!
Come gli invidiosi, la folla loda e critica;
Voi mi conoscete, voi! Mi avete spesso visto,
Solo nelle vostre profondità, guardando e sognando.
Voi lo sapete, la pietra su cui corre lo scarabeo,
L’umile goccia d’acqua di fiore in fiore caduta,
Una nuvola, un uccello, mi occupano un giorno intero.
La contemplazione m’empie il cuore d’amore.
Mi avete visto cento volte, nella vallata oscura,
Con le parole che dice lo spirito alla natura,
Interrogare sottovoce i vostri rami palpitanti,
E con lo stesso sguardo inseguire al tempo stesso,
Pensoso, la fronte chinata, lo sguardo nell’erba profonda,
Lo studio d’un atomo e lo studio del mondo.
Attento ai vostri suoni che parlano tutti un poco,
Alberi, mi avete visto fuggire l’uomo e cercare Dio!
Foglie che trasalite alla punta dei rami,
Nidi di cui il vento da lontano semina le piume bianche,
Chiarori, vallate verdi, deserti oscuri e dolci,
Voi sapete che sono calmo e puro come voi.
Come al cielo i vostri profumi, il mio culto a Dio si protende,
E son pieno di oblio come voi di silenzio!
L’odio sul mio nome sparge invano il suo fiele;
Sempre, – io vi attesto, oh boschi amati dal cielo! –
Ho cacciato lontano da me ogni pensiero amaro
E il mio cuore è ancora come lo fece mia madre!
Alberi dei grandi boschi che fremete sempre,
Io vi amo, e voi, edera alla soglia degli altri sordi,
Forre in cui si sentono filtrare le fonti vive,
Cespugli che gli uccelli saccheggiano, gioiosi convivi!
Quando sono tra voi, alberi di questi grandi boschi,
In tutto quel che m’attornia e mi nasconde al tempo stesso,
Nella vostra solitudine in cui rientro in me stesso,
Sento qualcuno di grande che m’ascolta e che mi ama!
Così, boschi sacri in cui Dio stesso appare,
Alberi religiosi, querce, muschi, foresta,
Foresta! È nella vostra ombra e nel vostro mistero,
Nella vostra chioma augusta e solitaria,
Che voglio riparare il mio sepolcro dimenticato,
E che voglio dormire quando mi addormenterò.
Victor Hugo
Nanna era la sposa del dio della luce Baldur, una delle più importanti divinità minori della mitologia norrena, ed era considerata la dea del mondo dei fiori. L’epoca della fioritura è quindi governata dal regno di Baldur.
Così titola Gustav Theodor Fechner la sua opera: Nanna, o l’anima delle piante. Un libretto delizioso con cui il filosofo ottocentesco si domanda – e argomenta – sull’esistenza dell’anima nelle piante.
Chi è dotato di una certa sensibilità e spirito di osservazione, già sa. Chi si rivolge alle piante accarezzandole e parlando con loro, complimentandosi per la loro crescita, per i frutti donati, per i boccioli o i fiori offerti, già comprende. Chi vive nei boschi, poi, non vede in quell’apparente immobilità alcuna privazione ma, semmai, si pone nel voler ricercare il linguaggio giusto per comprendersi reciprocamente.
Fechner parte da una domanda semplice quanto grandiosa: Un’anima, per conoscerne un’altra, può farlo solo mediante segni esteriori e corporei? In effetti, una parte dell’umanità (non tutta) riconosce un’anima anche agli animali, vedendo in loro la capacità di muoversi, gridare, nascere e morire, soffrire, mentre in considerazione delle differenze esistenti, viene sottratta loro la ragione. Alle piante, invece, la stessa parte di umanità vi sottrae l’intera anima.
Se allora è questa la strada da perseguire, ovvero la somiglianza all’uomo, ecco che piante e animali possono offrire moltissime consonanze: nei processi vitali, nel modo di produrre l’intera struttura cellulare da una cellula-ovulo, mediante il processo di divisione delle cellule, osservando come un seme ed un uovo siano in sostanza solo due forme diverse della medesima cosa.
Ma potrebbero esserci anime che si esprimano non correndo gridando o mangiando, ma piuttosto fiorendo e spandendo odori, assorbendo la rugiada e spingendo fuori le loro gemme, ricercando la luce, e noi dovremmo comprendere questo evitando qualunque sillogismo.
Molti milioni di uomini di diversi popoli hanno ritenuto e ritengono che le piante siano animate. Per le civiltà antiche tutto, nella natura, lo è. In nome di una scienza che io disconosco, respingiamo il pensiero d’un’anima delle piante, ma i nostri ricordi ancestrali ci ricollocano a quella conoscenza: ne parliamo nelle nostre poesie, nelle nostre metafore che ci riportano ad uno stato naturale in cui tutti noi eravamo perfettamente integrati, ad una memoria impossibile da cancellare realmente.
Nella natura sdivinizzata anche le piante sono rimaste inanimate, l’anima è stata loro strappata.
Non è il sistema nervoso, da ricercarsi. Non in una parte del creato per la quale, semplicemente, questo non è stato previsto. Non è cercando somiglianze con la nostra sensitività, che possiamo negare la sensitività altrui. Nelle piante non c’è il nervus sympathicus che regola diverse funzioni, ma possiamo forse affermare che in esse non avvenga la respirazione, la circolazione, la nutrizione? E dunque perché, si chiede Fechner, non potrebbero sentire avvalendosi semplicemente di altro?
Se le piante corressero e gridassero come noi, nessuno negherebbe loro l’anima. Tutti quei delicati e silenziosi indici d’anima che esse mostrano non contano per noi quanto gli altri, grossolani, che non riscontriamo. E se le piante fossero mute per noi poiché noi siamo sordi per esse? Il crescere della pianta è ciò che per l’animale è l’agire. Chi asserisce che l’animale è libero deve dichiarar libera anche la pianta, chi ritiene quello non libero, non può nemmeno a questa attribuire la libertà; e allora non si potrà più esigere la libertà come condizione del possesso dell’anima da parte della pianta, poiché non la si esige per l’animale.
Ecco Fechner e il suo pensiero. Delicato, commovente, da amare.
Roma, la Gallia, la Britannia, l’America, giacciono racchiuse già nel primo uomo. Esiste una relazione fra le ore della nostra vita e i secoli del tempo. Ogni singolo individuo è ancora una volta incarnazione della mente universale. Tutte le proprietà di essa esistono in lui. Ogni nuovo passo che egli compie nella sua esperienza privata getta la sua luce su quello che grandi masse di uomini hanno fatto, e le crisi della sua vita sono strettamente connesse alle crisi nazionali. Ogni rivoluzione fu dapprima un pensiero della mente di un solo uomo, e quando lo stesso pensiero nasce nella mente di un altro uomo esso diventa la chiave per capire quell’età.
Sentiamo il nostro animo in risonanza con i grandi momenti della storia, con le grandi scoperte, le grandi lotte, le grandi fortune degli uomini.
Un pittore mi disse che nessuno può dipingere un albero senza diventare in qualche modo un albero.
È stato detto che ‘le anime comuni pagano con quello che fanno, le anime più nobili con quello che sono’.
Una signora con la quale stavo cavalcando nella foresta, mi disse che sempre le pareva che i boschi ‘aspettassero’, come se i geni che abitano dentro di loro sospendessero le opere finché il viandante non fosse passato oltre.
Io ammiro l’amore della natura di Filottete. Leggendo quelle belle apostrofi al sonno, alle stelle, alle rocce, alle montagne e alle onde, io sento passare il tempo come un rifluente mare. Sento l’eternità dell’uomo, l’identità del suo pensiero. Il Greco ha avuto, sembra, gli stessi miei compagni. Il sole, la luna, il fuoco, l’acqua incontrarono il suo cuore esattamente come essi incontrano il mio.
Quando un pensiero di Platone diventa un pensiero mio, quando una verità che infiammò l’anima di Pindaro infiamma la mia, il tempo non esiste più. Quando io sento che noi due ci incontriamo in una percezione, che le nostre due anime sono imbevute dello stesso colore, e agiscono come se fossero fuse in una sola, perché dovrei io misurare i gradi di latitudine, perché dovrei contare gli anni d’Egitto?
Quando gli dei vengono in mezzo agli uomini, non sono riconosciuti.
La trasmigrazione delle anime non è una favola. Io vorrei che lo fosse, ma uomini e donne sono solo a metà umani. Ogni animale del cortile, del campo e della foresta, della terra e delle acque che sono sotto la terra, è riuscito a conquistare il suo posto e a lasciare l’impronta delle sue fattezze e della sua forma nell’uno o nell’altro di questi esseri eretti che parlano rivolti al cielo.
Quegli uomini che non sanno rispondere con una superiore saggezza sono fatti schiavi. I fatti li opprimono, li tiranneggiano e li rendono uomini dell’abitudine, uomini del senso, nei quali un’obbedienza letterale ai fatti ha spento ogni barlume di quella luce per la quale soltanto un uomo è veramente uomo. Ma se l’uomo è fedele ai suoi migliori istinti e sentimenti, rifiuta il dominio dei fatti, come uno che deriva da una stirpe più nobile, rimane fermamente attaccato all’anima, e vede il principio, allora i fatti ricadono docili e dominati al loro posto.
Io ritengo che il nostro sapere attuale sia di poco valore. Ascolta il topo sul muro, guarda la lucertola sulla siepe, i funghi sotto i tuoi passi, i licheni sul tronco. Che cosa conosco io, intimamente, moralmente di uno qualsiasi di questi mondi?
LA FIDUCIA IN SÉ STESSI
La virtù più ricercata è il conformismo. La fiducia in se stessi è il suo contrario. Essa ama non realtà e creatori, ma nomi e abitudini Chiunque vuole essere un uomo deve essere non conformista. Nulla in fondo è sacro se non l’integrità della propria mente.
L’uomo grande è quello che nel mezzo della mischia mantiene con perfetta serenità l’indipendenza della solitudine. L’obiezione che si può fare contro il conformarsi a usi che sono diventati lettera morta per te è basata sulla costatazione che ciò disperde le tue forze. Ciò consuma il tuo tempo e rende confusa l’impronta del tuo carattere.
Un’anima grande non ha proprio niente a che fare con la coerenza. Se ne può interessare come della propria ombra sul muro.
Nella strada, un uomo, non trovando in se stesso nessun merito che corrisponda alla forza che costruì la torre o scolpì un dio di marmo, si sente povero, quando guarda queste cose.
Sempre, quando un’anima è semplice e riceve una saggezza divina, le vecchie cose svaniscono: mezzi, insegnanti, testi, templi cadono in pezzi; essa vive ora, e assorbe passato e futuro nell’ora presente.
Queste rose che sono sotto la mia finestra non fanno nessun riferimento a rose precedenti o a rose migliori; esse sono quello che sono; esistono con Dio, oggi. Il tempo non esiste per loro. Esiste semplicemente la rosa; essa è perfetta in ogni momento della sua esistenza. Prima che una sola gemma sia sbocciata, la sua intera vita agisce; nel fiore completamente sbocciato non ce n’è di più; nella radice nuda di foglie non ce n’è di meno. La sua natura è soddisfatta ed essa soddisfa egualmente la natura di ogni momento. Ma l’uomo pospone o ricorda; egli non vive nel presente, ma con gli occhi rivolti indietro, lamenta il passato, oppure, noncurante delle ricchezze che lo circondano, si alza sulla punta dei piedi per prevedere il futuro. Egli non può essere né felice né forte fino a quando egli pure non viva con la natura nel presente, al disopra del tempo.
Soltanto la vita è utile e non l’aver vissuto. L’energia si arresta nell’istante del riposo, essa consiste nel momento di transizione da uno stato passato a un nuovo stato, nel superamento dell’abisso, nel balzo verso lo scopo. Proprio questo fatto il mondo odia; che l’anima divenga perché questo degrada per sempre il passato, cambia tutte le ricchezze in povertà, ogni reputazione in vergogna, confonde il santo con il briccone, spinge dalla stessa parte tanto Gesù che Giuda.
L’uomo non ha rispetto per l’altro uomo né il suo genio viene ammonito a rimanere in casa, a mettere se stesso in comunicazione con il suo oceano interiore, ma va all’estero a chiedere una tazza d’acqua alle urne di altri uomini. Noi dobbiamo andare soli. Io amo la chiesa silenziosa, prima che il servizio cominci, più di ogni predica.
Ma il vostro isolamento deve essere non meccanico, ma spirituale, vale a dire deve essere elevazione. Alle volte il mondo intero sembra cospirare per importunarti con enfatiche stupidaggini. L’amico, il cliente, il bambino, la malattia, il timore, il bisogno, la carità, tutti bussano in una volta alla tua porta chiusa e dicono: ‘Vieni fuori con noi!’. Ma tu mantieni la tua posizione; non entrare nella loro confusione.
La preghiera è la contemplazione dei fatti della vita dal più alto punto di vista. È il soliloquio dell’anima contemplante e giubilante. È lo spirito di Dio che enuncia la bontà delle sue opere- Invece una preghiera intesa come mezzo per raggiungere un fine particolare è bassezza e furto. Essa presuppone un dualismo e non un’unità fra natura e coscienza. Non appena l’uomo è tutt’uno con Dio, egli non prega più. Egli vedrà allora la sua preghiera in ogni sua azione. La preghiera del contadino che si inginocchia nel suo campo per sarchiarlo, la preghiera del rematore che si inginocchia al colpo del remo, sono vere preghiere udite attraverso la natura, benché innalzate per fini modesti.
Un’alta specie di false preghiere sono i nostri rimpianti. Lo scontento è la mancanza di fiducia in se stessi, un’infermità della volontà.
La società non progredisce mai. Se avanza da un lato, torna indietro da un altro.
La società acquista nuove arti e perde vecchi istinti. Quale contrasto fra l’Americano ben vestito, che sa leggere, scrivere, pensare, con un orologio, una matita, una lettera di cambio, e il nudo abitante della Nuova Zelanda, la cui proprietà è una mazza, una lancia, una stuoia e un ventesimo di una capanna indivisibile per dormirci sotto! Ma confrontate la salute dei due uomini e vedrete che il bianco ha perduto la sua forza primitiva.
L’uomo civile ha costruito un cocchio, ma ha perduto l’uso dei propri piedi. E’ sorretto da grucce, ma perde la propria forza muscolare. Possiede un bell’orologio ginevrino, ma ha perso l’abilità di dire l’ora secondo il sole. Ha un bell’almanacco nautico di Greenwich, e così, essendo sicuro di avere l’informazione che gli serve quando vuole, l’uomo della strada non conosce una sola stella nel cielo. Non osserva il solstizio; l’equinozio lo conosce appena; e l’intero calendario luminoso dell’anno è senza quadrante nella sua mente. I suoi taccuini gli ostacolano la memoria; le sue biblioteche sovraccaricano il suo spirito; l’ufficio delle assicurazioni moltiplica gli incidenti; e possiamo ben domandarci se le macchine non ci sono di ingombro; se non abbiamo perduto qualche energia con il nostro incivilimento.
COMPENSAZIONE
L’intero sistema delle cose viene rappresentato in ogni particella. Esiste qualcosa che somiglia al flusso e al riflusso del mare, al giorno e alla notte, all’uomo e alla donna, in un singolo ago di pino, nel gheriglio del grano, in ciascun individuo di ogni specie animale. La reazione, così grandiosa negli elementi, è ripetuta all’interno di questi limitati confini.
Allo stesso dualismo soggiace la natura e la condizione dell’uomo.
Per ogni cosa che hai perduto hai guadagnato qualcos’altro; e per ogni cosa che guadagni perdi qualcos’altro. Se le ricchezze crescono, esse vengono accresciute per usarle. Se il raccoglitore raccoglie troppo, la Natura prende via dall’uomo quello che egli mette nelle proprie casse; aumenta la proprietà ma uccide il proprietario. La Natura odia i monopoli e le eccezioni.
Esiste sempre una qualche circostanza livellatrice che abbassa sostanzialmente al livello degli altri l’arrogante, il ricco, il fortunato.
Benché nessun contrappeso al male appaia ancora, i contrappesi esistono, e appariranno. Se il governo è crudele, la vita del governante non è sicura. Se tassi troppo duramente, il reddito non produrrà nulla. Se rendi troppo duro il Codice penale, le giurie non condanneranno. Se la legge è troppo tenera, nasceranno vendette private. Se il governo è una democrazia terrificante, la pressione è arginata da una maggiore carica di energia nel cittadino.
Ogni segreto è rivelato, ogni crimine punito, ogni virtù ricompensata, ogni torto raddrizzato, in silenzio e con certezza.
Causa ed effetto, mezzo e fine, seme e frutto, non possono essere dissociati; perché l’effetto già fiorisce nella causa, il fine preesiste nel mezzo, il frutto nel seme.
Questa è l’antica dottrina della Nemesi, che vigila nell’universo e non permette che nessuna offesa rimanga impunita.
Tutti i vecchi abusi della società, i grandi e gli universali, i volgari e i particolari, tutte le ingiuste accumulazioni di ricchezza e di potenza, sono vendicate nella stessa maniera.
Le maledizioni ricadono sempre su coloro che le pronunciano. Se metti una catena al collo di uno schiavo, l’altra estremità si attorciglierà intorno al tuo.
Trattate gli uomini come pedine o birilli, e soffrirete quanto loro. Se disprezzate il loro cuore, perderete il vostro.
Pagate sempre, perché prima o poi dovrete pagare l’intero debito. Persone o eventi possono stare fra voi e la giustizia per un certo tempo, ma è soltanto un rinvio. Alla fine, dovrete pagare il vostro debito.
Tutti i beni materiali hanno la loro tassa, e se mi vennero senza merito o sudore, essi non hanno radici in me, e il prossimo vento li soffierà via.
Tempo di nebbie e d’ubertà matura, Dell’almo sole amico prediletto; Tu che, seco, la vite ti dai cura Di far felice d’uve, intorno al tetto, E di pomi i muscosi alberi adorni, Gonfi la zucca, e alle nocciuòle un sapido Gheriglio infondi, e i frutti empi di nettare, E ancor fai gemme, ultimi fior per l’api, Ond’esse credon che coi caldi giorni Sopra la terra Estate ognor soggiorni, Per cui trabocca ogni umida celletta:
Chi non ti ha visto tra le tue ricchezze? Talor chi cerca scopre te: sei colco Su un’aia, pigro, ventilanti brezze Fra i tuoi crini asolando; o presso un solco Mezzo-mietuto, mentre il tuo falcetto Lascia di tagliar l’erba e i fiori attorti, T’infondono i papaveri il sopore; O, attraversando un rivo, il capo eretto, Come spigolatrice, a volte porti; O, ad un torchio di sidro, gli occhi assorti Tu fissi al gemitio per ore ed ore.
Dove son, dove i cantici di Maggio? Non pensarvi, hai tu pur tua melodia: Quando, affocando il dì che muor, d’un raggio Roseo le stoppie opaca nube stria, Un coro di zanzare si querela Tra i salci fluviali, in basso o in suso Spinte, secondo il vento cada o aneli, E dai borri gli agnelli adulti belano, Cantano i grilli, ed un gorgheggio effuso Fa il pettirosso da un giardino chiuso, Rondini a stormi stridono pei cieli.
(Traduzione di Mario Praz)
Con questo bellissimo componimento, il grande poeta romantico inglese John Keats (1795 – 1821) descrive piccole oggettività autunnali. Questa ciclicità stagionale, che chiude con i mesi freddi, è la ruota della vita stessa; della sua vita, dato che il poeta è gravemente ammalato e consapevole di trovarsi nell’autunno della propria esistenza ancora giovanissimo. Accettata pienamente la sorte, egli non vi si ribella ma si culla nella mera descrizione di ciò che la vita offre, ove l’esistenza di ciascuno ha un profondo significato per sé e per gli altri in un universo pullulante di senso. Ogni autunno, la natura è generosa di eventi gravi e lievi, taluni impercettibili eppure importanti; talvolta, essi sembrano non lasciare traccia alcuna se non accorgendoci noi stessi della loro profondità e del loro senso. La memoria di ciò che è già accaduto ci accompagna nell’osservare ciò che accade, in una ripetizione costante ed infinita. Così, ognuno è al proprio posto nel gioco della vita, come Keats lo è in quel momento. Questo flusso continuo si smorza col calare della luce, con l’avvento del freddo, con la morte stessa. Eppure il ritorno è certo: il chiarore e il tepore accompagneranno la nostra ricomparsa che si manifesterà con certezza e come sempre accaduto, come rondini a Primavera in un ciclo infinito.
Forse non tutti avranno la pazienza di leggerla per intero, ma è un’opera che stringe lo stomaco, che smuove la coscienza. Bisogna saper guardare negli occhi dell’altro e provare vergogna. Avendo lui stesso varcato le porte del carcere, Oscar Wilde ha saputo dipingere la crudele infamia del carcere e della pena di morte. E’ un capolavoro, ed è comunque vero: ogni uomo uccide ciò che ama, ma il destino non è lo stesso per tutti.
LA BALLATA DEL CARCERE DI READING
Egli non porta il suo abito rosso perché rossi sono il sangue e il vino: e il sangue e il vino erano sparsi sulle sue mani, quando lo trovarono accanto al letto ove giaceva morta la donna amata ch’egli aveva uccisa. Camminava tra gli Uomini Colpevoli con indosso un logoro abito grigio e un berretto sghembo sulla testa. Il suo passo sembrava lieve e allegro. Ma io non ho mai visto sguardo d’uomo volgersi cosi ansioso verso il giorno. Non ho veduto mai l’occhio di un uomo volgersi con lo sguardo cosi ansioso verso il lembo minuscolo d’azzurro che nel carcere è il cielo e verso l’alta nuvola trascinata alla deriva come sospinta da vele d’argento. Mi trovavo con altri condannati in un raggio diverso e mi chiedevo quale fosse la colpa di quell’uomo: grande o piccola. Ad un tratto una voce s’avvicinò e mi disse in un sussurro: “Quel tipo sta per essere impiccato”. Cristo santo!. Le mura di quel carcere parvero vacillare all’improvviso e la volta del cielo sul mio capo sembrò un casco d’acciaio incandescente. Anche su me pesava una condanna, ma in quel momento non aveva senso. E mi chiedevo quale suo pensiero inseguendo, egli il passo ora affrettava e perché verso il giorno così splendido lo sguardo addolorato era rivolto. Aveva ucciso la cosa che amava e doveva pagare con la morte.
Eppure ogni uomo uccide ciò che ama. Io vorrei che ciascuno m’ascoltasse: alcuni uccidono adulando, ad altri basta solo uno sguardo d’amarezza. Il vile uccide mentre porge un bacio e l’uomo coraggioso con la strage! Molti uccidono l’amore da giovani, altri invece da vecchi. Chi lo strangola con le avide mani del Peccato e chi invece con le mani dell’Oro. L’uomo gentile adopera il coltello perché il freddo mortale sia più rapido. Alcuni amano troppo brevemente ed altri troppo a lungo. C’è chi vende e chi compra; chi uccide il proprio amore senza un singhiozzo e chi con molte lacrime. Ma nessuno, tra quelli che hanno ucciso ciò che amavano, paga con la morte. Nessuno morirà con un’orrenda morte morte in un giorno pieno di vergogna; nessuno avrà una corda intorno al collo né una benda coperta sulla faccia, né coi suoi piedi annasperà nel vuoto cercando invano un punto ove poggiarsi. Nessuno siederà tra silenziosi uomini che lo scrutano a ogni istante: quando gli occhi si sforzano di piangere, o quando il cuore tenta una preghiera, o per timore che qualcuno rubi dal carcere la preda designata. Nessuno all’alba vedrà la sua stanza popolarsi di orribili figure: il Cappellano nella bianca tonaca, il Prefetto severo e quasi triste, il Direttore con I ‘abito nero. Ogni Condanna ha il loro volto giallo. Nessuno si vedrà porgere l’abito da indossare per l’ultimo momento, né un medico distratto annoterà i suoi battiti mentre un orologio scandisce il tempo e ogni suo tic-tac è un orribile colpo di martello.
Nessuno sentirà la soffocante sete che rende arida la gola nell’istante che il boia, coi suoi guanti da giardiniere, appare sulla porta per stringere con tre giri di corda quella gola che più non avrà sete. Nessuno chinerà la testa a udire la lettura dell’Ordine di Morte. L’angoscia del suo cuore gli dirà che non è ancora morto ma i suoi occhi scorgeranno una bara: crederà d’essere nella fiera degli orrori. Nessuno fisserà l’aria attraverso un minuscolo tetto di cristallo: nessuno pregherà con le sue labbra di creta che finisca l’agonia né sentirà sulle sue guance il bacio di Caifa posarsi come un brivido.
II Egli per sei settimane passò nel cortile col suo abito grigio e il berretto sghembo sulla testa: il suo passo sembrava lieve e allegro ma io non ho mai visto sguardo d’uomo volgersi così ansioso verso il giorno. Non ho veduto mai l’occhio di un uomo volgersi con lo sguardo così ansioso verso il lembo minuscolo d’azzurro che nel carcere è il cielo e verso l’alta nuvola che trascina alla deriva il suo vello di lana sfilacciato. Egli non tormentava le sue mani come capita agli uomini meschini che coltivano un’assurda Speranza dove c’è solo la Disperazione. Solo guardava in alto verso il sole e respirava l’aria del mattino. Non torceva le mani, non cadeva in lacrime e neppure sospirava lamentandosi: ma beveva l’aria come a trovarsi un ultimo sollievo Noi vedevamo le sue labbra schiuse assaporare il sole come il vino. Io e gli altri compagni di sventura chiusi in un raggio diverso, smettemmo di chiederci se fosse grande o piccolo il delitto che avevamo commesso e guardavamo con occhi stupiti l’uomo che doveva essere impiccato. Era strano vederlo camminare con un passo così leggero e allegro; era strano vedere che i suoi occhi si fissavano al giorno così ansiosi; era strano pensare ch’egli avesse un debito pauroso da pagare.
Gli olmi e le querce hanno le foglie adorne di grazia: a primavera esse rifulgono. L’albero della forca invece è torvo e per radici ha serpenti affamati: perché possa generare i suoi frutti un uomo deve morire su di esso. Tutte le cose della terra tendono all’alto posto ove la grazia siede: ma chi aspira a sedere sopra un alto patibolo, con il volto bendato guardando il cielo per l’ultima volta attraverso il collare della morte? Dolce è danzare al suono dei violini quando la Vita e Amore ci sorridono: danzare al suono dei flauti, danzare col liuto, è piacevole e gentile: ma non è dolce quando il piede agile danza a vuoto nell’aria ov’è sospeso. Giorno per giorno restammo a guardarlo con occhi attenti e con tristi pensieri: ci chiedevamo se ognuno di noi avrebbe atteso come lui la morte. Noi non sappiamo come il rosso Inferno può turbare il nostro animo accecato. Infine l’uomo morto non apparve mai più tra i Condannati e ci fu chiaro che ormai giaceva nella fredda tenebra dell’orrenda darsena e non avremmo più rivisto il suo volto: non nel giorno dell’abbondanza e non nella miseria. Come due navi in mezzo alla tempesta ci eravamo incrociati: ma nessuno di noi due fece un segno o parlò mai. Non avevamo parole da dire: non nella notte santa ci incontrammo ma nel giorno coperto di vergogna. Intorno a noi c’era il muro di un carcere: eravamo due uomini esiliati. Il mondo ci scacciava dal suo cuore e Dio dal suo pensiero. Su di noi s’era chiusa la trappola di ferro che spietata è in attesa del Peccato.
III Nel Cortile del Debito ci sono aride pietre e un muro troppo alto: qui egli non poteva respirare che l’aria cupa di un cielo di piombo mentre due guardie stavano al suo fianco per impedire che potesse uccidersi. A volte egli sedeva tra coloro che spiavano attenti la sua pena: chi per vedere il pianto nei suoi occhi, chi le sue labbra dire una preghiera e chi per impedire che sfuggisse al carcere la preda designata. Il Direttore s’era trincerato dietro il Regolamento Carcerario; il medico diceva che la morte è soltanto un fenomeno scientifico; il Cappellano gli parlò due giorni lasciandogli un libretto di preghiere. E per due giorni egli fumò la pipa, bevve il suo quarto di birra e sembrava che la paura non trovasse posto nel suo animo forte, risoluto. Spesso diceva d’essere contento d’avvicinarsi al giorno del carnefice. Nessuna delle guardie mai gli chiese perché dicesse queste strane cose: a chi è stato affidato come compito di sorvegliare un condannato a morte non è permesso dire una parola e il suo volto deve essere una maschera. Pure, se egli commosso s’avvicina a confortarlo ed a fargli coraggio, a cosa serve la Pietà dell’Uomo nella tana abitata dal Delitto? Quale parola di pietà sarebbe l’aiuto ad uno spirito fraterno? Procediamo con passo malsicuro: è la Parata degli Sciagurati, Non abbiamo rammarico: sappiamo d’essere la Brigata del Diavolo. Il piombo ai piedi e le teste rasate sembrano una gioiosa mascherata. Abbiamo retto corde di catrame con le unghie spezzate e sanguinanti; abbiamo ripulito i pavimenti, lucidato le porte e le rotaie e insaponato il palco asse per asse levando un alto strepito dai secchi. Abbiamo manovrato un polveroso trapano, abbiamo spaccato le pietre, cuciti i sacchi, percosso lo stagno, urlato inni e sudato a una macina: e intanto il sentimento del terrore prendeva posto nel cuore di ogni uomo. Prendeva posto al punto che ogni giorno s’insinuava come un’onda sporca, finché dimenticammo anche l’amara sorte che attende i ladri e i disonesti: col passo di chi torna dal lavoro noi varcammo la soglia di una tomba. L’enorme bocca della tana gialla era in attesa di una cosa viva: il fango urlando domandava sangue per dissetare l’anello d’asfalto; noi sapevamo che in un’alba livida avremmo visto penzolare un uomo. Quando entrammo il nostro animo era pieno di Terrore, di Morte, di Condanna; il boia col suo passo inavvertito s’avvicinava fino a noi nel buio. Io camminavo tremante e, a tentoni, cercavo la mia tomba numerata.
In quella notte i vuoti corridoi erano popolati dalle forme della Paura: non si udiva un passo nella città di ferro, ma alle sbarre delle finestre chiuse sulle stelle, bianchi volti sembravano apparire. Egli è disteso come uno che giace in una dolce prateria e sogna. Le guardie che l’osservano dormire non capiscono come un uomo possa dormire tanto dolcemente, mentre il carnefice veglia accanto a lui. Ma il sonno manca agli uomini che piangono colui che non ha pianto: noi, i relitti, i disonesti, gli impostori, siamo scossi da una vigilia senza pace e un nuovo terrore si fa strada con l’angoscia nell’animo d’ognuno. È pauroso sentire che ci pesa il delitto di un altro sulle spalle! Perché allora la Spada del Peccato agita la sua elsa avvelenata e come piombo fuso noi versiamo lacrime per il sangue che non diamo. Ora le guardie con passi felpati ci vengono a spiare nelle celle e rimangono attonite a vedere grige figure lungo il pavimento: gli uomini che non hanno mai pregato ora in ginocchio dicono preghiere. In ginocchio per una notte intera: pazzesco funerale di un cadavere! Le ali tremanti della mezzanotte oscillavano come un carro funebre. Nel vino amaro chiuso in una spugna si sentiva il sapore del Rimorso.
Si udì il canto di un gallo e poi di un altro: eppure il giorno non veniva ancora. Le ombre del Terrore si curvavano sopra di noi, distesi nei nostri angoli. I fantasmi che vanno nella notte sembravano giocare innanzi a noi. Scivolavano avanti, indietro, in fretta, simili a viaggiatori nella nebbia. Erano avvolti in mantelli sontuosi e sembravano irridere alla luna: verso il loro convegno di fantasmi correvano con grazia disgustosa. Con cento smorfie li vedemmo andare tenendosi per mano, nelle tenebre. La folla dei fantasmi s’aggirava in una vorticosa sarabanda: sembravano ridicoli arabeschi disegnati dal vento sulla sabbia. Saltellavano come marionette Sulla punta dei piedi, in giravolte: poi, mostrando la loro orrenda maschera, soffiarono nei flauti del Terrore e cantarono a lungo, ad alta voce. Era il canto di veglia per il morto. E gridavano: “Il mondo è così largo, ma l’uomo incatenato non ha spazio! Gettare i dadi per una o due volte è un gioco senza dubbio signorile. Ma non vince chi gioca col Peccato nella casa ov’è chiusa la Vergogna”. Non avevano un aspetto gradevole questi esseri così buffi e gioiosi: per gli uomini che giacciono in catene e i cui piedi non hanno il passo libero, io so che queste forme quasi vive rappresentano un orrendo spettacolo. E vanno intorno, sempre intorno. Danzano in un giro di valzer, allacciati con mille smorfie: coppie che vacillano sulle scale con passo malsicuro, sguardi invitanti sulle facce orribili, muovono i nostri cuori alla preghiera. Il vento del mattino incominciò a soffiare gemendo: ma era notte. Sopra un ampio telaio si tesseva filo per filo il velo delle tenebre e noi, tra le preghiere, aspettavamo atterriti la Giustizia del Sole. Il vento lamentoso s’aggirò tra le mura del carcere in angoscia: una ruota d’acciaio inesorabile ci sembrava il passare quei minuti. Vento di morte, cosa abbiamo fatto per meritare simile tortura? Infine io vidi tra le sbarre oscure come una grata ricamata in piombo muoversi lungo i muri calcinati posti di fronte al mio letto di tavole: in qualche posto del mondo si levava l’alba rossa terribile di Dio. Alle sei mettemmo in ordine i letti, alle sette ogni cosa era tranquilla, ma il vento che soffiava senza tregua riempiva tutto il carcere: il Signore della Morte, col suo respiro gelido, era entrato in quel luogo per uccidere. Non passava solenne in un corteo né cavalcava un destriero lunare. Un asse sdrucciolevole e una corda bastano per erigere un patibolo. Così l’Araldo vestito di tenebre s’apprestava al suo compito segreto. Noi sembravamo uomini perduti su una palude oppressa dalle tenebre: non osavamo dire una preghiera né esprimere la nostra amara angoscia. Sentivamo qualcosa che moriva in tutti noi: ed era la Speranza. La Giustizia terribile dell’Uomo compie il suo corso e mai se ne allontana: uccide il forte come uccide il debole né il suo passo spietato può arrestarsi. Col tallone di ferro schiaccia l’uomo forte: quale mostruoso parricidio! Aspettammo il rintocco delle otto, La nostra lingua era arsa dalla sete. Il rintocco delle otto segna l’ora del Destino per l’uomo maledetto: il Destino che adopera il suo nodo contro l’uomo malvagio e contro il buono. Oramai dovevamo solo attendere il segnale: come esseri di pietra lungo una valle abbandonata, stemmo in silenzio seduti. Solo il cuore d’ognuno aveva battiti violenti come un pazzo che infuria su un tamburo. L’orologio del carcere d’un tratto scosse l’aria con un sordo rintocco e da ogni parte si levò un lamento disperato, angoscioso, come il rantolo che le paludi spaventate ascoltano dalla tana nascosta di un lebbroso. Come a volte le cose più paurose nel cristallo di un sogno si rivelano, noi vedemmo penzolare a una trave un abito di canapa consunto e udimmo una preghiera strangolata in un urlo dal laccio del carnefice. Nessuno può capire più di me l’alta maledizione che egli invoca e i lamenti selvaggi, il grido amaro, i sudori di sangue del suo corpo: egli che vive assai più di una vita dovrà patire assai più di una morte.
IV Non ci sono cappelle in questo giorno che un uomo sta per essere impiccato: il Cappellano ha il cuore troppo debole o forse la sua faccia è troppo pallida oppure nei suoi occhi c’è segnato qualcosa che nessuno deve leggere. Restammo chiusi fino a mezzogiorno o mezzanotte: poi si udì il rintocco della campana, un tintinnio di chiavi, e i carcerieri aprirono le celle: sulle scale di ferro discendemmo, ognuno dal suo Inferno solitario, E quando uscimmo a respirare l’aria nessuno aveva lo sguardo di sempre: chi in volto era sbiancato, chi era grigio per la paura. E io non ho mai visto sguardi d’uomini in preda alla tristezza volgersi così ansiosi verso il giorno. Non ho veduto mai uomini tristi volgersi con gli sguardi così ansiosi verso il lembo minuscolo d’azzurro che nel carcere è il cielo e verso l’alte nuvole che viaggiano felici: isole di una strana libertà. Vidi molti di noi che camminavano a capo chino, ciascuno pensando che se avesse pagato il proprio debito sarebbe morto al posto di quell’uomo: egli ha ucciso una cosa che viveva ed essi invece hanno finito i morti. L’uomo che pecca una seconda volta risveglia al pianto uno spirito morto lo toglie dal suo sudicio sudario e lo costringe a sanguinare ancora, a sanguinare dalle piaghe aperte, a versare altro sangue inutilmente.
Come scimmie o pagliacci, il cui mostruoso vestito è Ornato di frecce contorte, noi silenziosi camminammo in cerchio lungo il viscido asfalto del cortile; camminammo in silenzio, sempre in cerchio, e nessuno diceva una parola. Camminammo in silenzio, tutti in cerchio, e nella mente svuotata di ognuno la memoria delle cose più orribili s’avventava come un vento pauroso. Davanti a noi camminava l’Orrore e il Terrore strisciando ci seguiva.
I carcerieri andavano su e giù con gli occhi fissi sul gregge dei bruti, Avevano uniformi nuove, lucide, con gli ornamenti dei giorni di festa. Ma gli stivali imbiancati di calce ci dicevano di dove tornavano. Dove una larga tomba è stata aperta prima non c’erano tombe, ma solo una distesa di fango e di sabbia presso le orribili mura del carcere. Quest’uomo avrà come proprio sudario un ammasso di calce che lo brucia. Quest’uomo miserabile ha un sudario che solo pochi possono sperare: sprofondato nel cortile di un carcere, esposto alla vergogna più completa, egli giace coi piedi incatenati avvolto in un lenzuolo incandescente. Qui la calce che brucia da ogni parte divora la sua carne e le sue ossa: divora a notte le sue fragili ossa e di giorno la sua tenera carne. Divora a turno la carne e le ossa ma divora il suo cuore senza sosta.
Per tre anni nessuno getterà una radice o un seme in questo posto. Per tre anni lunghissimi la terra di questo posto sarà nuda e sterile e con stupore pieno di rimprovero guarderà verso il cielo incuriosito. Dicono: basta un cuore assassinato per guastare ogni seme. Non è vero! La buona terra di Dio, questa terra, è migliore di quanto supponiamo. La rosa rossa potrebbe fiorirvi più rossa ancora e più bianca la bianca. Dalla sua bocca una rosa vermiglia! Dal suo cuore una rosa tutta bianca! Chi può dire da quali strane vie viene alla luce il volere di Cristo se un giorno anche lo sterile bastone del pellegrino si coprì di fiori? Ma non la rosa bianca come latte E non la rossa può fiorire in carcere solo il rottame, il ciottolo, la selce, sono le cose che possiamo avere. Non i fiori, che servono a guarire un uomo dalla sua disperazione. La rosa rossa di vino e la bianca non lasceranno mai cadere i petali sulla distesa di fango e di sabbia presso le orribili mura del carcere, per dire ai prigionieri del cortile che il figliolo di Dio morì per tutti.
Anche se le orride mura del carcere lo circondano ancora da ogni parte e i ceppi incatenano lo spirito che non può camminare nella notte (il suo spirito può soltanto piangere perché giace su un suolo maledetto) egli è in pace. Quest’uomo miserabile è in pace o presto lo sarà. Per lui non esistono cose senza senso né il Terrore cammina a mezzogiorno: la terra senza luce ove egli giace è lontana dal Sole e dalla Luna. Lo hanno impiccato al modo delle bestie. Nessuno ha pronunciato un solo requiem: eppure gli bastava una preghiera per dare pace all’animo atterrito. Lo hanno portato fuori in tutta fretta e l’hanno sprofondato in una tana. I carcerieri gli hanno tolto gli abiti, hanno mostrato il suo corpo alle mosche, hanno deriso la sua gola gonfia e lo sguardo impietrito dei suoi occhi. Hanno riso ammucchiando con le pale il sudario che ricopre il colpevole. Il Cappellano non s’è inginocchiato accanto alla sua tomba maledetta non ha tracciato con la mano il segno della Croce di Cristo: eppure anch’egli appartiene alla schiera di coloro che il Signore venne in terra a salvare. Non importa: se egli ha attraversato il limite fissato per la vita lacrime sconosciute riempiranno l’urna della Pietà per lui. Avrà i lamenti degli uomini esiliati: per gli esiliati esiste solo il pianto.
V Io non so dire se la Legge è giusta o se la Legge è ingiusta. So soltanto che noi languiamo abbandonati in carcere circondati da mura troppo alte dove ogni giorno è lungo come un anno: un anno fatto di giorni lunghissimi. E questo posso dire: che ogni Legge creata dall’uomo per l’Uomo, dal tempo che il primo Uomo assassinò suo fratello ed ebbe inizio la pazzia del mondo, rende paglia il frumento e tiene in vita gli sterpi: allora si ingrandisce il male. Ed anche questo so (vorrei che ognuno lo sapesse): ogni carcere è costruito dall’uomo con mattoni di vergogna e chiuso dalle sbarre, perché Cristo non veda come gli uomini riescono a mutilare anche i propri fratelli. Con queste sbarre macchiano la luna ed acciecano il sole. Forse è giusto che tengano nascosto il loro Inferno: dentro avvengono cose che nessuno, non il Figlio di Dio e non il Figlio dell’Uomo, avrebbe forza di guardare.
Soltanto gli atti vili, come le erbe velenose, fioriscono nel carcere: tutto ciò che di buono v’è nell’Uomo qui va in rovina e avvizzisce per sempre. Sulla porta c’è la Pallida Angoscia. Il Carceriere è la Disperazione. Fanno mancare ogni cosa al bambino che spaventato piange notte e giorno, deridono chi è vecchio e grigio, frustano lo sprovveduto, flagellano il debole, cosi che alcuni impazziscono e tutti diventano crudeli e più non parlano. Ogni misera cella che abitiamo è nera e sporca come una latrina: il fetido respiro della morte ci raggiunge dovunque. Tutto, tranne la Lussuria, diventa arida polvere nella macchina dell’umanità. L’acqua salmastra che beviamo striscia come una melma disgustosa e il duro pane amaro che pesano ogni giorno è impastato di creta e di calcina. Il Sonno non riposa, ma con occhi furibondi cammina urlando al tempo.
E anche se la Fame con la Sete lotta, come un serpente con la vipera, non è il cibo che in carcere ci assilla: ciò che deprime e uccide di più è che ogni pietra raccolta di giorno si trasforma in un cuore nella notte. È mezzanotte nel cuore di un uomo, e il crepuscolo nella cella di un altro: ognuno nel suo inferno solitario gira un uncino o lacera una corda. Il silenzio lontano e più solenne del suono di una campana di rame. Mai una voce umana s’avvicina per dire una parola di conforto. Lo sguardo che ci scruta dalla porta non ha pietà, impassibile. Da tutti dimenticati, siamo qui a marcire, sfigurati nel corpo e nello spirito. Così, sola e umiliata, arrugginisce la catena di ferro della Vita. Alcuni piangono, altri maledicono, altri invece non mandano un lamento. Ma la legge di Dio è generosa e può spezzare la pietra di un cuore. Per ogni cuore d’uomo che si spezza nella cella o nel cortile di un carcere un tesoro viene offerto al Signore, come quando una scatola si ruppe e l’odore rarissimo del nardo riempi l’immonda casa del lebbroso. Felice il cuore che si può spezzare e raggiungere il perdono e la pace. Non altrimenti un uomo può trovare la via che lo allontana dal Peccato. Non altrimenti, che attraverso il cuore spezzato, Cristo potrà entrare in lui.
Ora, con la sua gola rossa e gonfia, con i suoi occhi immobili, impietriti, egli aspetta le mani benedette che portarono il ladro in Paradiso: forse il Signore non respingerà questo cuore spezzato che si pente. L’uomo che legge il libro della Legge gli lascio tre settimane di vita: tre sole settimane per curare la discordia che agitava il suo spirito e liberare dai grumi di sangue la mano che aveva retto il coltello. Con lacrime di sangue egli deterse la mano che l’acciaio aveva stretto: soltanto il sangue può asciugare il sangue e solo il pianto può sanare un’anima. La macchia rossa che lasciò Caino divenne il bianco sigillo di Cristo.
VI Nel carcere della città di Reading fu scavata una fossa di vergogna: ora vi giace un uomo maledetto divorato dai denti delle fiamme. È avvolto in un sudario incandescente nella tomba rimasta senza nome. Lasciatelo giacere nel silenzio fino al giorno che Cristo chiamerà tutti i morti a raccolta. Non spargete vane lacrime o inutili sospiri: aveva ucciso la cosa che amava e doveva pagare con la morte. Eppure ogni uomo uccide ciò che ama. Io vorrei che ciascuno m’ascoltasse: alcuni uccidono adulando, ad altri basta solo uno sguardo d’amarezza. Il vile uccide mentre porge un bacio e l’uomo coraggioso con la strage!
Non sento parlare di poesia; non sento mai che essa sia trattata nei circoli, nei bar, tra la gente comune come un tempo avveniva. Non sento più che i versi siano letti e discussi nelle case, di sera, attorno a un fuoco, o sdraiati su un prato guardandosi negli occhi. Di fronte al mare d’inverno, o ad una luna piena, è ciò che più desidero sia letto e recitato a me da un amico caro, o da un amore sincero.
Le poesie di Sergéj Aleksàndrovic Esenin, meravigliose, sono di una sensibilità elevatissima. Ne propongo cinque. Trovo che una raccolta di poesie di questo grande poeta russo sia, per me, il più bel regalo di San Valentino. Un regalo deve assomigliarci, deve partire da chi ci ha visto dentro, e in questi temi io mi ritrovo, cominciando dalla prima, che è famosissima e struggente, quanto le altre che ho scelto.
La ballata della cagna
Al mattino nel granaio dove biondeggiano le stuoie in fila, una cagna figliò sette, sette cuccioli rossicci Sino a sera li carezzava pettinandoli con la lingua e la neve disciolta colava sotto il suo caldo ventre. Ma a sera, quando le galline si rannicchiano sul focolare, venne il padrone accigliato, tutti e sette li mise in un sacco. Essa correva sui mucchi di neve, durando fatica a seguirlo. E così a lungo, a lungo tremolava lo specchio dell’acqua non ghiacciata. E quando tornò trascinandosi appena, leccando il sudore dai fianchi, la luna sulla capanna le parve uno dei suoi cuccioli. Guardava l’azzurro del cielo con striduli guaiti, ma la luna sottile scivolava e si celò nei campi dietro il colle. E sordamente, come quando in dono le si butta una pietra per giuoco, la cagna rotolò i suoi occhi come stelle d’oro nella neve.
Io ricordo
Io ricordo, o amata, ricordo
Lo splendore dei tuoi capelli,
Senza gioia, con pena
Mi toccò abbandonarti.
Ricordo le notti autunnali,
Il fruscio dell’ombre di betulla.
Fossero stati più brevi i giorni allora
Più a lungo per noi avrebbe avuto splendore la luna.
Ricordo, tu mi dicevi:
‘E tu, o amato, con un’altra
Mi dimenticherai per sempre?’
Oggi il tiglio in fiore
Ha rinnovato i sentimenti,
M’ha ricordato come teneramente
Spargevo di fiore le ciocche ricciute.
E il cuore che mai
Non scema d’ardore
Tristemente amando un’altra,
Come tu fossi la novella preferita,
Con un’altra ti ricorda.
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco verso il paese dov’è gioia e quiete. Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere le mie spoglie mortali per il viaggio.
Care foreste di betulle! Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure! Dinanzi a questa folla di partenti non ho forza di nascondere la mia malinconia.
Ho amato troppo in questo mondo tutto ciò che veste l’anima di carne. Pace alle betulle che, allargando i rami, si sono specchiate nell’acqua rosea.
Molti pensieri in silenzio ho meditato, molte canzoni entro di me ho composto. Felice io sono sulla cupa terra di ciò che ho respirato e che ho vissuto.
Felice di aver baciato le donne, pestato i fiori, ruzzolato nell’erba, di non aver mai battuto sul capo gli animali, nostri fratelli minori.
So che là non fioriscono boscaglie, non stormisce la segala dal collo di cigno. Perciò dinanzi a una folla di partenti provo sempre un brivido.
So che in quel paese non saranno queste campagne biondeggianti nella nebbia. Anche perciò mi sono cari gli uomini che vivono con me su questa terra.
Sono un pastore
Sono un pastore; le mie case sono
le sponde delle pianure ondeggianti,
I pendii per le verdi colline
Con le grida stridenti di beccacce.
Intessono un pizzo sopra il bosco
Di schiuma dorata le nubi,
Nel calmo dormiveglia sul tetto
Sento il fruscio leggero della pineta.
Alla sera splendono verdi
I pioppi umidi.
Sono pastore; le mie case si trovano
Nella verzura dolce delle pianure.
Parlan con me le mucche
Assentendo con la testa
Le foreste profumate
Coi rami chiamano il fiume.
Dimentico dell’umano dolore,
Dormo sulla ramaglia
Prego nei tramonti purpurei,
Mi comunico presso il ruscello.
Arrivederci, amico mio, arrivederci
Arrivederci, amico mio, arrivederci. Tu sei nel mio cuore. Una predestinata separazione Un futuro incontro promette.
Arrivederci, amico mio, senza strette di mano, senza parole, Non rattristarti e niente Malinconia sulle ciglia: Morire in questa vita non è nuovo, Ma più nuovo non è nemmeno vivere.
Alcune magnifiche poesie autunnali e del mese di novembre, forse il mio mese preferito (forse).
San Martino, di G. Carducci
La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar.
Autunno, di C. E. Gadda
Tàcite imagini della tristezza Dal plàtano al prato! Quando la bruma si dissolve nel monte E un pensiero carezza E poi lascia desolato – la marmorea fronte; Quando la torre, e il rattoppato maniero, Non chiede, al vecchio architetto, più nulla: Allora il feudo intero – fruttifica una susina Bisestile, alla collina Dolce e brulla. Tace, dal canto, il prato. Il pianoforte della marchesina Al tocco magico delle sue dita S’è addormentato: E dopo sua dipartita – l’autunno S’è scelto un nuovo alunno: Il passero!, lingua di portinaia Dal gelso all’aia: E il cancello e lo stemma sormonta La nenia del campanile – e racconta I ritorni, all’aurata foresta: Garibaldeggia per festa Sopra il travaglio gentile Perché alla bella il ragazzo piaccia, Quello che lassù canta, quello che lassù pesta. Il vecchio marchese ha inscenato una caccia Con quindici veltri, e galoppa, Diplomatico sconsolato Sul suo nove anni reumatizzato. Della volpe nessuna notizia, nessuna traccia! Il cavallo ha un nome inglese: e il corno sfiatato Assorda nella tana il ghiro Che una nocciòla impingua! Al docicesimo giro La muta s’è messa un palmo di lingua E, mòbile macchia, cicloneggia bianca Nella deserta brughiera Là, verso il passaggio a livello, Dove arriva stanca, Salendo, la vaporiera. Passa il merci e il frenatore – più bello, Lungo fragore! – vana bandiera! Ha incantato la cantoniera. Ecco il diretto galoppa – verso città lontane E il cavallo inglese intoppa Negli sterpi dannati e calpesta I formicai vuoti e le tane. Ma dal campanile canta l’ora di festa – canta Tristezze vane!
Autunno, di G. Apollinaire
Passano nella nebbia un contadino storto e il suo bue, lentamente, nella nebbia d’autunno che nasconde i tuguri poveri e vergognosi. E, mentre s’allontana, il contadino canta una canzone triste dell’amore infedele, che parla di un anello e d’un cuore spezzato. Oh, l’autunno, l’autunno ha sepolto l’estate! Passano nella nebbia due figurine grigie.
Pensiero D’Autunno, di A. Negri
Fammi uguale, Signore, a quelle foglie moribonde che vedo oggi nel sole tremar dell’olmo sul più alto ramo. Tremano sì, ma non di pena: è tanto limpido il sole e dolce il distaccarsi dal ramo, per congiungersi sulla terra.
S’accendono alla luce ultima, cuori pronti all’offerta; e l’angoscia, per esse, ha la clemenza d’una mite aurora. Fa’ ch’io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così, senza lamento, penetrata di Te come del sole.
Alda Merini, classe 1931. Anni fa avevo visto una sua intervista; nella sua casa di Milano, sui Navigli, raccontava la sua vita, i suoi amori per uomini che non l’avevano amata, la sua solitudine, la sua depressione. Fumava una sigaretta dietro l’altra e le spegneva buttandole a terra, sul pavimento della cucina come fosse l’asfalto all’aperto, schiacciandole e lasciandole lì. Mi avevano colpito proprio quei gesti e mi buttai nelle sue poesie. Magnifiche, colme di dolore, di disillusione, di malinconia. La amo tanto, come amo tanto tutti coloro che soffrono, ne riconosco i segni, ne riconosco le vibrazioni. Ci riconosciamo.
Scelgo di farle onore con queste due sue poesie. Donna grande, come vorrei che tutte le donne fossero. Le vere donne, intendo, non le altre. Alda Merini era una vera donna, ecco. Le persone che soffrono o hanno sofferto hanno una marcia in più, l’ho sempre pensato.
‘Mi sento un po’ come il mare: abbastanza calma per intraprendere nuovi rapporti umani ma periodicamente in tempesta per allontanare tutti, per starmene da sola.
Ogni giorno cerco il filo della ragione, ma il filo non esiste o mi ci sono aggrovigliata dentro.
Due cose portano alla follia: l’amore e la sua mancanza
Non mettermi accanto a chi si lamenta senza mai alzare lo sguardo, a chi non sa dire grazie, a chi non sa accorgersi più di un tramonto. Chiudo gli occhi, mi scosto un passo. Sono altro. Sono altrove.
Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita, rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti e che tu non hai voluto.
A volte l’anima muore e muore di fronte a un dolore, a una mancanza d’amore e soprattutto quando viene sospettata d’inganno.’
‘Mi piace il verbo sentire… Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore. Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra, sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco. Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo col cuore. Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente…’
Vorrei spendere due parole su molti blogger che sto scoprendo in questi tempi, che mi leggono e mi apprezzano. Non so bene come abbiano fatto a trovarmi in rete, addirittura da molti paesi all’estero, dato che non mi pubblicizzo per nulla. Non so nemmeno per quale motivo molti di essi siano magnifici poeti. Forse, anche nei miei scritti, benché non in versi, essi vi trovano qualche malinconica melodia, ma poco importa. E’ importante, invece, constatare quanti eccezionali talenti vi siano, persone interiormente ricchissime e non prive di dolore, che io avverto nei loro scritti. C’è spesso un filo conduttore, ed è la perdita di ciò che fu, molto cara anche a Shakespeare.
Desidero dire loro di perseverare nella cura della loro anima attraverso i loro stupendi versi, alcuni dei quali mi hanno davvero colpita. Desidero ringraziarli per ciò che mi donano. Non è importante quanto siano noti, ciò che sentono può cambiare il mondo. Un augurio a tutti.