Sorriso

POMODORO

Faccio sempre dei complimenti alle mie piante, perché – dopo i mesi invernali in cui comunque mi sono presa cura del loro torpore, questo è il periodo in cui ognuna di loro si dà parecchio da fare. Non mi limito a bagnarle, ma dico una parola specifica e personalizzata ad ognuna di loro tutti i giorni. Ed è un peccato che non possa essere in montagna, là si che avrei trascorso l’intera giornata tra fiori, alberi, uccellini e farfalle. Così, ogni mattina, mi piace avvicinarmi ad una pianta alla volta, bagnarla e osservare quali novità mi stia offrendo. Per una c’è un fiore che sta per sbocciare, per un’altra delle foglioline nuove, per un’altra ancora una gemma o un nuovo alberello. Le dico, allora, che è stata brava e che sono lieta di qualsiasi cosa ritenga di volermi donare. Accarezzo sempre le mie piante, sulla testolina e sulle foglie; il mio rapporto con loro è visivo e tattile, ma anche empatico e telepatico. Dico loro di presentarmi i loro piccoli e, anche quando sono bruttarelli come in alcune piante grasse, a loro dico che sono meravigliosi e che sono il risultato del loro sforzo e del loro amore. Ogni figlio, infatti, è degno di essere. C’è una grande energia in tutto questo, la mia e la loro all’unisono. Ci parliamo, presento una nuova piantina alla mia gatta e la gatta alla nuova piantina. Quest’anno, per la prima volta, ho sperimentato la semina di pomodori sul balcone, anche se faccio parte di coloro che farebbero fatica a cibarsi di ciò che persino coltivano, lo riterrei un tradimento. Ho dato per scontato che nulla sarebbe cresciuto, non so perché. E invece, mentre una mattina facevo il giro delle piante per dir loro la parolina del giorno, erano sbucate le prime due foglioline di un solo semino, tra tanti che avevo seminato (forse troppi). Mi sono emozionata, perché anche se fossero state due foglioline di sola erba, l’avrei ritenuto un miracolo a cui avevo partecipato personalmente. Così, su quelle minuscole foglioline, ho rivolto le mie attenzioni come si farebbe nei confronti di un esserino indifeso qualunque. Mi sono avvicinata ed ho inviato loro un sorriso.  Poi, scavando leggermente altrove, ho visto che moltissimi altri semi avevano già iniziato a germogliare ed erano pronti a sbucare dalla terra. Ho rivolto un discorso a tutti in generale, chiedendo loro perché, in una semina, un germoglio risulti più veloce di altri, cosa lo determini. E dato che non mi hanno risposto, e che il dubbio di queste misteriose forze della natura mi rimangono nella mente, ho deciso di aiutare tutti in uno sforzo collettivo. Così, mentre nel pomeriggio prendevo una mezz’oretta di sole, e non di più perché non lo sopporto, ho messo Mozart e l’ho fatta ascoltare ai germoglietti. Il giorno dopo, di pianticelle ce n’erano decine, e anche se non dessero alcun frutto sono ormai parte della famiglia e verranno nutriti nel corpo e nello spirito dalla mia acqua e dalle mie parole. Oggi, quelle piantine sono alte e le ho già accarezzate più volte, schiacciandole un po’ per eccesso di amore e poi aggiustandole con ulteriore eccesso di amore. Ed anche loro mi hanno sorriso.

Un mondo sbagliato

UN MONDO SBAGLIATO

Questo bellissimo saggio risponde ad una domanda che personalmente mi sono fatta molte volte: ‘Come ha fatto l’uomo a ridurre così il proprio Pianeta e con esso se stesso, e perché ha voluto dominare su ogni essere vivente provando un tale disprezzo per tutto ciò che è ‘altro’ da sé? E’ un libro che consiglio di leggere a chi voglia capire se, in qualche modo, siamo stati condannati a diventare quel che siamo e se la nostra sete di dominio sia insita nel nostro codice genetico.

Tale transizione ha richiesto migliaia di anni e occorre fare molti passi indietro per ricostruirne le tappe.

Innanzitutto, occorre ricordare che il pensiero moderno, che relega la natura e gli animali a qualcosa da sfruttare e dominare, anche se parte da molto più lontano, è stato fortemente inculcato da alcuni testi principali e da alcune figure che si sono avvicendate nella cultura occidentale: La Bibbia, ad esempio, che sostiene che la terra è destinata a servire esclusivamente i fini dell’uomo. La Genesi, però, scritta da uomini del Medio Oriente, è la scrittura di miti e modus tramandati oralmente per secoli in quelle terre. Vi è poi l’antica Grecia, col pensiero Aristotelico entrato direttamente nel nostro attuale dna. Per Aristotele, il dominio sulla natura è sancito dalle leggi naturali. Questo pensiero verrà poi riproposto da altri filosofi quali San Tommaso d’Aquino, Bacone, Cartesio. Il contributo di quest’ultimo è stato quello di recidere ogni legame tra uomo e natura, elevando l’uomo a dominante e distinguendolo dalla natura. Per Cartesio, gli animali non sperimentano piacere né dolore e sono paragonati a macchine. E’ facile oggi dire che Cartesio non sapeva quel che diceva, perché in realtà il suo pensiero era frutto di un pensiero ereditato e che si perde in tempi antichissimi, e a sua volta ha influenzato il pensiero moderno, altrimenti non saremmo a questo punto.

E dunque, dove si colloca l’origine del dominio? Perché l’uomo si sente legittimato a dominare su tutto e su tutti? Perché, non dimentichiamolo, il dominio si manifesta con altre mille modalità: la schiavitù del nero da parte del bianco, la misoginia dell’uomo verso la donna, la società patriarcale nei confronti della donna e dei figli, il colonialismo, per fare solo alcuni esempi.

Molti studiosi oggi concordano sul fatto che l’origine dell’alienazione dell’umanità dal resto della natura sia riconducibile alla transizione dall’economia di raccolta a quella agricola. Prima dell’agricoltura, avvenuta solo 10mila anni fa, l’Homo sapiens sapiens è stato un raccoglitore. E’ interessante sapere questo: se il momento distintivo tra noi e le altre grandi scimmie (volendo avere una visione scientifica) è avvenuta 10 milioni di anni fa, e questi 10 milioni di anni venissero compressi in un solo anno solare, siamo stati raccoglitori fino alle ultime 8 ore e 45 minuti, dopodiché siamo divenuti agricoltori in una transizione di 4mila anni.

Tutto, prima, era motivo di stupore e di venerazione, poiché l’uomo non viveva nella natura ma era della natura e considerava ogni altra manifestazione naturale come qualcosa degno di sacralità. Ciò che accomuna le principali religioni del mondo antico, infatti, è la credenza che in natura oggetti e luoghi siano dotati di ‘spirito’. La religione giudaico cristiana sostiene, invece, che lo spirito è separato dalla natura e l’uomo deve governarla in quanto unico essere dotato di spirito. Le religioni di un tempo, quindi, erano animiste, e conferivano a laghi, fiumi, e foreste ma soprattutto animali – un’anima individuale. E’ la mia stessa credenza e non è affatto difficile da credere, basta porsi in modalità percettiva.

I popoli primevi vivevano nella natura come parte integrante, conoscevano bene cosa fosse commestibile e avevano una dieta composta, fino all’80%, da vegetali raccolti soprattutto dalle donne e dai bambini. Erano le donne ad essere le principali procacciatrici di cibo, e da esse dipendeva la sopravvivenza dei gruppi. E’ solo molto più tardi nel corso dell’evoluzione che farà la sua comparsa la vera e propria caccia pianificata, molto più tardi della comparsa di Homo sapiens sapiens, ma l’uomo continuò a cibarsi di vegetali anche allora, ad eccezione delle sole regioni dell’estremo nord. Peraltro, la teoria che ci vorrebbe carnivori da sempre, e che questa pratica avrebbe determinato il nostro sviluppo, è oggi ritenuta del tutto superata. In gran parte, essa è stata introdotta dal grande e fuorviante apporto di antropologi maschi che hanno attribuito ogni ritrovamento di armi all’ancestrale necessità di cacciare dell’uomo; solo la nuova antropologia ha rimesso a posto le cose, sostenendo che molte lance ritrovate erano utensili delle donne raccoglitrici. Le donne, pertanto, erano venerate in quanto procreatrici, raccoglitrici e preparatrici di cibo, guaritrici perché conoscevano la materia prima; il loro potere ispirava l’arte originaria, e molte sono le statuette femminili della tarda età della pietra, note anche come ‘Veneri’. In questa fase, l’uomo non era ancora a conoscenza dei principi della propria fertilità e ruolo nella procreazione. Tale conoscenza, avvenne proprio quando gli umani cominciarono ad addomesticare gli animali e a vivere in continuità con gli stessi per lungo tempo.

Ciò che è fondamentale comprendere, è che gli umani primevi consideravano gli animali predati come degli uguali, come dei fratelli. Riconoscevano l’anima di ogni animale e desideravano che questa non si vendicasse per aver ucciso il corpo che la ospitava.

I rituali di caccia erano il sintomo di un senso di colpa, e vennero pertanto inseriti per credere di essere stati autorizzati da entità superiori a commettere qualcosa che l’uomo non avrebbe dovuto commettere. Spiritualmente, infatti, uccidere è il peggiore danno che possa essere fatto alla propria e stessa anima innanzitutto. Attraverso la caccia, gli uomini compensavano uno squilibrio all’interno del gruppo, derivante dal potere delle donne. La caccia, quindi non era tanto la conquista di cibo quanto la conquista di potere, il potere dell’animale ucciso.

Poi, siamo divenuti agricoltori. Per quasi 10 mila anni i popoli dell’Occidente hanno svolto attività agricole, manipolando così la natura a loro vantaggio. Noi, in quanto occidentali, siamo imbevuti di cultura agricola anche se non abbiamo mai preso una zappa in mano, dato che la cultura ancestrale è ciò che determina il nostro modo di leggere il mondo ancora oggi. E non a caso, l’uomo occidentale ha inventato la schiavitù, l’espropriazione delle terre, l’illegalità, la distruzione delle culture locali e lo sterminio completo degli animali selvatici e dei popoli conquistati.

I primi cacciatori-pastori vennero a conoscenza del risultato finale dell’accoppiamento e del ruolo del maschio e della femmina rispetto ai cicli della vita. Appresero le tecniche utili per ingrandire la propria mandria, agevolando la nascita di femmine e castrando i maschi. Per quanto ne sappiamo, le pecore furono i primi animali a essere stati addomesticati, circa 11mila anni fa nel nordest dell’Iraq. Poco tempo dopo toccò alle capre e, dopo ancora, ai maiali e ai bovini. Agricoltura e pastorizia cambiarono definitivamente il paesaggio e il rapporto tra natura e uomo. I coltivatori si assicurarono il surplus produttivo disboscando, espandendo i campi coltivabili e deviando corsi d’acqua per l’irrigazione. I pastori si assicurarono lo stesso espandendo i pascoli e aumentando la dimensione delle mandrie. Questo comportò una popolazione in crescita nell’antico Medio Oriente e necessità maggiori di scorte; fu questo a far nascere le classi subalterne governate da élite ricche e potenti, da una parte, ed espansionismo e militarismo dall’altra, che a loro volta portarono alla schiavitù.

A Gerico, nei pressi del fiume Giordano, le prime mura furono erette nel 7200 a.C. ed erano un segno di difesa dallo stato di guerra legato all’ordine agrario. Per controllare i conflitti sociali legati alla spartizione dell’acqua, delle terre coltivabili e degli animali ancora allo stato brado, furono necessarie nuove forme di controllo. Ben presto, i grandi uomini divennero re, le élite più forti soggiogarono altre regioni, se le annessero e fondarono gli stati-nazione. Per riuscire a mantenere il controllo sociale, i sovrani si servirono di eserciti e di schiavi, mentre alcuni individui cercavano con la forza di raggiungere la cima della scala sociale. Erano i maschi esperti di guerra, gli uomini che possedevano le armi e l’antichissima cultura dei cacciatori-guerrieri. La continuità culturale tra cacciatori, guerrieri e governanti è evidente nell’arte dell’Antico Egitto e della Mesopotamia, nelle cui scene di caccia al leone e al toro viene rappresentato il modo abituale in cui venivano raffigurati l’eroismo e i poteri personali dei re arcaici. Anche la pratica della schiavitù ne è strettamente connessa. La stessa pratica del sacrificio umano trova origine nei rituali di guerra che sono, a loro volta, derivati da antichi rituali di guerra. L’assassinio rituale serviva ai guerrieri per dotarsi di quella durezza virile necessaria per infliggere una morte violenta e affrontarne le conseguenze emotive. Il sacrificio umano è pertanto uno dei tanti rituali usati dalle culture guerriere per ottundere i sentimenti e incoraggiare le azioni aggressive, come combattere, prendere scalpi, fare incursioni, uccidere, cacciare, competere con altri uomini in attività agonistiche violente. Col tempo, tali pratiche divennero regolari consuetudini di guerra e furono canonizzate in racconti, miti, cerimonie e rituali.

L’espansionismo, poi, è una specialità occidentale. Ecco perché in tutte le civiltà agricole emergenti vediamo comparire gli stessi sovrani assoluti, la stessa casta sacerdotale, le stesse élite dominanti e le stesse dispotiche città-stato. Secoli dopo, gli eredi culturali del Medio Oriente, cioè noi occidentali (europei e americani), abbiamo esplorato, conquistato e colonizzato tutti i continenti.

Quindi, tirando le somme, la caccia prima, la pastorizia poi e infine la riduzione in schiavitù di animali grandi e potenti, soprattutto bovini e cavalli, hanno diffuso nella cultura occidentale un delirio di onnipotenza misto a valori di predominio tipici dei popoli pastorali. E il passaggio cruciale è avvenuto quando questi valori sono stati integrati nella religione e nelle istituzioni militari e di governo.

Nel soggiogarli fisicamente, gli uomini ridimensionarono gli animali anche dal punto di vista mentale e culturale. Castrati, aggiogati, imbrigliati, impastoiati, rinchiusi e incatenati, gli animali domestici furono completamente sottomessi e, per la prima volta, gli umani si considerarono come esseri separati dal resto della natura. I sacrifici rituali, comuni in tutto il mondo, assunsero dimensioni gigantesche: alla consacrazione del tempio di Salomone a Gerusalemme, gli Ebrei macellarono 22mila buoi e 120mila pecore. Nella Grecia classica, i sacrifici animali erano così frequenti che si diceva che il Partenone puzzasse come un mattatoio.

Avevamo un legame fortissimo con la natura e gli animali, ma abbiamo scelto la supremazia ponendoci sul primo gradino della scala e ricevendo in cambio una profonda frattura tra noi e il resto del mondo vivente.

Temo, senza ritorno.

Diari

DIARI FOTO 1DIARI

DIARI IMPRONTE DIGITALI

Avevo accumulato negli anni molti diari scolastici e agende. Erano tantissimi ed erano stipati in un mega cassetto che facevo fatica ad aprire. Così, avevo tolto tutto da quel cassetto destinandolo ad altro, e avevo depositato la ‘materia’ in un grande sacco che era rimasto in un angolo a decantare per diversi mesi. La prima decisione che avevo preso, sull’onda del repulisti, era di buttare tutto senza nemmeno sfogliarne una pagina; poi, avevo pensato che, almeno qua e là, avrei dovuto fare un controllo dei contenuti e stabilire cosa conservare. Mi ci sono messa oggi.

C’era un primo diario con lucchetto che risale alle elementari, perché la scrittura ha sempre fatto parte della mia vita. Raccontavo alcuni episodi importanti, come i giorni della Prima Comunione e della Cresima, o alcune vacanze. C’è anche una descrizione, con foto, di mio fratello. Le ultime pagine le avevo cedute ai miei compagni di 5^ elementare perché ci scrivessero un pensiero di fine scuola (e ciclo), cosa che avrò fatto anch’io sui loro diari. Avevo persino raccolto la loro impronta digitale. Tutti, nei loro ultimi scritti, si auguravano di poterci ritrovare negli anni a venire. Invece, non ci siamo mai cercati e non ho mai rivisto nessuno, anche perché ho sempre abitato lontano dalle scuole che ho frequentato. Molto presto, ho dimenticato tutti quei nomi e volti.

Poi, vi erano i diari delle medie. Ritardi su ritardi alle prime ore, giustificazioni di mia mamma in forma scritta, contro-risposta del professore di turno che faceva notare che i ritardi erano la norma. I diari cominciano ad assumere un’altra forma e soprattutto un altro scopo. Per un 50% dello spazio vi sono scritti compiti e uscite scolastiche, oltre che le note, e per il restante 50% faccende personali di una tredicenne e quattordicenne che cominciava ad occuparsi di altro, sapeva rispondere per le rime e si inventava qualunque scusa pur di non stare troppo sui libri (anche se sapevo cavarmela). Con gli anni, il diario scolastico non bastava più e, con alcune compagne/amiche, avevamo istituito i quaderni in cui descrivevamo interi pomeriggi di cazzeggio pomeridiano, tutte prese dai molti ragazzini con cui avevamo a che fare. In una pagina parlo di Marco, nella pagina successiva appare Maurizio, poi Paolo che va avanti per alcune pagine, poi riappare Marco che ha comprato la Laverda e che fa colpo su di me. Poi molti altri. A parte Marco, che ho nel cuore perché – poco dopo – sarebbe morto di overdose da eroina all’età di 19 anni, gli altri non so oggi che faccia abbiano mai avuto, né che fine abbiano fatto. Quei quaderni li ho buttati.

Ed ecco le agende del Liceo. Davo del filo da torcere, a casa come a scuola. Lo spazio di ogni giorno parla di compiti e appunti al 20% e di innamoramenti all’80%. I nomi aumentano vertiginosamente, non sapevo di esser stata così ‘attiva’. Ogni giorno parlo di uno ma penso all’altro ed esco con un terzo mentre un quarto ne è geloso. Tutto così per anni interi, con alcune compagne come complici e vedette. Come sfondo, foto e foto di personaggi biondi della tv e della musica, qualche apparizione di mio fratello, ma poche, qualche visita ai parenti, le domeniche alle giostre con i giostrai dagli occhi verdi ritrovati dall’anno prima, qualche vacanza al mare da cui portare altri nomi che verranno trattati nelle pagine successive fino ad esaurire la loro potenza emotiva. Ero carina e il codazzo non mi è mai mancato, ma questo groviglio di persone non mi ha lasciato nulla.

Trascorrono un po’ di anni e riappare la consuetudine di tenere un’agenda all’anno. Solo che ora sono agendine e vi si scrive solo ciò che rappresenta qualcosa. Inizialmente le uscite, al cinema o per alcune gite, con qualche amico, in vacanza; qualche episodio mondano di lavoro, gli esami in università, qualche flirt e le rose ricevute dai pretendenti (che oggi nemmeno gradirei). Ho buttato tutte queste agendine.

Infine, nelle agende degli anni più recenti, compare qualcosa qua e là. Sono tutti doveri: il mutuo, le visite specialistiche, i conti da far quadrare, i lavori in casa, gli impegni con la scuola del figlio. Buttate a maggior ragione.

Da qualche anno a questa parte, non tengo più alcuna agenda e non mi appunto in alcun modo ciò che ho fatto. Non lo ritengo più importante. E nemmeno mi identifico in alcuna Roberta di quelle epoche, non sono certo quella e, forse, non lo ero nemmeno allora. Ho conservato, di quella grande quantità di diari, solo 5 annate che poserò in cantina e non guarderò mai più. Le tengo, non senza avervi strappato alcune pagine, solo perché sia mio figlio a buttarle un giorno. Ho provato un senso di nausea, questa è la verità.

Io non lo mangio

AGNELLO PASQUA

Questo poster è appeso in casa mia da anni, si vede anche sotto la tappezzeria English Style. La Pasqua può ricordare benissimo la Resurrezione di Cristo anche senza far rivivere la morte ad esseri senzienti, inconsapevoli di ciò che accade loro e del tutto innocenti, che mai farebbero del male ad alcuno. Dato che le Religioni non intendono modificarsi in ragione dell’evoluzione del pensiero e della sensibilità dell’uomo, che meriterebbe maggiore considerazione, allora sono le persone a dover cambiare le Religioni. Evitando di cibarsi di cuccioli indifesi, si segna un primo passo verso un miglioramento di sé, si comincia a guardare al mondo con occhi diversi. Aumenta l’empatia verso tutti, il corpo si purifica perché non introietta tossine. Lo spirito, l’anima, ci ringrazia, in quanto non abbiamo voluto sporcarla del dolore arrecato ad un essere vivente. Non macchiamoci le mani di sangue, non procuriamo dolore a nessuno e limitiamoci a riflettere: valgo così poco per dover accondiscendere a pratiche vetuste che nulla hanno a che fare con me? A quelli che comprano agnello o capretto: ‘Uccidereste direttamente quel cucciolo, con le vostre mani? Forse no ma commissionate ad altri di ucciderlo per voi.’

Per chi, ancora, non sappia cosa avvenga nei macelli, può scoprirlo seguendo molti siti di associazioni importanti: Essere Animali Enpa, Animal Equality, AWF (Animal Welfare Foundation), per fare alcuni esempi. Un pugno allo stomaco può far bene per capire che si è disposti a cambiare, e che questa pausa dalla vita abitudinaria è servita per riflettere sul singolo apporto di violenza che ciascuno di noi riversa sul mondo. 

Ogni anno, sono milioni gli agnelli macellati brutalmente dopo averli strappati dal loro gregge e averli trasportati in lunghissimi viaggi della speranza. 

Chi ama gli animali non li mangia. Chi ha un cane, un gatto, e ritiene di amarlo, non mangia nessun altro animale, perché è ciò che il suo cane e il suo gatto gli chiederebbe di fare.

 

 

Occasione perduta

EPIDEMIE

Prima o poi – speriamo – questa pandemia regredirà lasciandoci in pace, almeno fino a che, un’altra calamità, non farà capolino come nuova minaccia. Questa avrebbe dovuto essere un’occasione per riflettere sulle connessioni tra l’emergere di pandemie e la distruzione della natura e degli ecosistemi. Non mi pare che se ne sia parlato, non mi pare che si siano voluti introdurre nuovi criteri e nuove abitudini, non mi pare che gli scienziati siano scesi in campo né che i Governi si siano detti d’accordo nel prendere in mano la situazione. Nemmeno mi pare che, il mondo intero, abbia detto alla Cina che quello schifo dei mercati di animali selvatici vivi, macellati al momento, deve chiudere. Che queste pratiche immonde non devono più essere praticate e non certo, in primis, per l’eventuale minaccia all’uomo. Siamo così concentrati su noi stessi, la specie eletta a cui nulla deve capitare, da non essere capaci di comprendere come noi siamo la causa dei nostri stessi mali. Se perdiamo anche questa preziosissima occasione, di situazioni di questo tipo, che vanno ad aggiungersi a tutto ciò che già ci fa ammalare ma che pare sia del tutto normale, ne vedremo ancora. Continuiamo pure, imperterriti, a distruggere e a praticare abitudini in contrasto con l’equilibrio del sistema.

Nel frattempo, mentre si stava in casa, la natura si è espansa. In molte località urbane e semi-urbane, tornate libere da auto, smog, rumori, persone e schiamazzi, molti animali selvatici hanno ricominciato a girovagare riprendendosi quella libertà che avrebbero avuto il diritto di mantenere ma che noi – sempre la specie eletta a cui nulla mai deve accadere – abbiamo tolto loro da tempo. Noi decidiamo su tutto e tutti, ignari che esista anche un karma collettivo, non solo personale. Intanto, però, l’aria ha potuto in parte ripulirsi, le acque, senza gran parte degli sversamenti inquinanti, anche.

Cosa succederà quindi, dopo? Penso che non succederà nulla. La gente, privata delle solite abitudini per un mesetto, non vedrà l’ora di volare riappropriandosi del cielo. Non vedrà l’ora di prendere la macchina e di andare in giro a casaccio pur di affermare il proprio dominio. Avrà anche tollerato un mese a casa ma che non si parli di dover rinunciare alla vacanza al mare. Riprenderanno le partite di calcio senza le quali l’uomo medio sembra non essere  in grado di esistere, riprenderanno gli happy hour e le mode per stordirsi i cervelli, riprenderà il gratta e vinci. L’importante sarà condurre la vita di sempre, con tutti i propri condizionamenti, pensando di averla scampata.

Peccato, avrebbe dovuto essere un’occasione ma verrà perduta.

Biofilia

VIOLETTA NELL'ASFALTO

E’ l’amore per la vita, per il mondo vivente e, poiché ci siamo evoluti nella natura, la natura è la nostra casa, il nostro DNA. Siamo strutturati geneticamente per considerare la natura come il nostro habitat, ossia quell’ambiente da cui la nostra stessa sopravvivenza dipende. Anche chi non se ne renda conto, ha desiderio della natura su un piano spirituale, ne avverte il richiamo che magari lascia inascoltato. Ecco perché nelle città antropizzate e urbanizzate ci si ammala. Nevrosi e depressioni possono essere intese come malattie spirituali, e – non trattate in tal senso dalla medicina convenzionale occidentale – sono assai temibili. La disconnessione col mondo naturale equivale ad uno strappo profondo, all’essere stati rapiti dal luogo in cui la nostra storia terrena ha da sempre avuto corso. I boschi e le foreste, come le montagne, i fiumi e i laghi, sono luoghi magici di sapienza nei quali risiedono gli spiriti della natura; passeggiando in un luogo naturale, selvaggio, ci calmiamo. E restando in silenzio, col solo ascolto dei suoni naturali, ci giungono profonde intuizioni e messaggi importanti per la nostra evoluzione. La mente si schiarisce, il corpo si rigenera. Gli alberi, coi loro fruscii, ci parlano; l’acqua, col suo movimento, ci offre i suoi saggi consigli; lo scorrere di un fiume ci riporta al fluire della vita, il movimento delle onde alla ciclicità del tempo.

I nostri occhi non sono fatti per guardare un paesaggio urbano, perché non vi ritrovano i verdi e gli azzurri di antica memoria, oggi infatti considerati i colori più riposanti; se ce ne priviamo, qualcosa comincia a disconnettersi gradualmente in noi. Nessun colore è mai stato creato dall’uomo, ma è stato copiato dalla natura, sia come idea che per la sua fabbricazione chimica. Ci sono i colori, dunque, e ci sono gli odori. Passeggiando in un bosco, percepiamo il rilascio degli aromi delle cortecce e degli oli essenziali rilasciati degli aghi. L’acqua ci restituisce, oltre ai suoi bisbiglii, l’odore dei microrganismi che vi lavorano incessantemente. E’ fondamentale accorgersene, dato che la meraviglia altro non è che tutto ciò che è esattamente oggi sotto i nostri occhi, ed anche una piccola violetta che sbuca dall’asfalto rappresenta un vero miracolo, una vittoria del bene sul male, l’unica bandiera da sventolare e da proteggere sotto la quale l’intera umanità dovrebbe riunirsi. Quel fiore, quel filo d’erba, quel piccolo insetto che vi corre sopra, sono inni alla vita più di qualsiasi altra demagogia. Basta sedersi e guardarli per vedere come, la loro perfezione, sia un dono immenso per tutti noi.

C’è l’ascolto delle onde, dei fruscii, dei battiti d’ali, dello scricchiolio di foglie secche. Non c’è creatura che non ci parli e che non desideri comunicare con noi se gliene diamo la possibilità. Basta essere umili: fermarsi, ascoltare, ricevere, ringraziare. C’è anche il tatto: camminare a piedi nudi su una spiaggia socchiudendo gli occhi per percepirne gli effetti, sentire i raggi del sole o quelli della luna (questi ultimi a me più congeniali). Camminare sull’erba, immergere le mani nella terra, abbracciare un albero, toccare i ciottoli immersi in un ruscello, permettere ad una coccinella di camminarci lungo il braccio e lasciarla fare per quanto ne ha voglia.

E c’è la voce. Anche noi possiamo parlare ad ogni creatura, un albero, un prato, un fiore, una piccola lepre. Possiamo salutarli, entrare in connessione e riconoscere la loro anima. Possiamo chiedere loro, ad esempio, di aiutarci a comprenderli e di darci un’altra possibilità.