Quando vengo a sapere che un personaggio noto, o comunque più o meno pubblico, è venuto a mancare, sento sempre una certa forma di disagio. Me ne dispiaccio sempre allo stesso modo, sia stato egli un personaggio di alto valore o sia stato uno non molto gradito. Il grado di dispiacere che provo è sempre lo stesso, non varia in alcun modo. Ho sentito la stessa cosa, per fare un esempio, anche quando è scomparso Totò Riina. Questo perché, credo, la morte di una persona è una risoluzione definitiva. Da quel preciso momento, si deve smettere di giudicare, di avere un’opinione, perché nello stesso preciso istante questo non spetta più a noi. A me, perlomeno. Comincio, allora, a chiedermi cosa davvero io sappia di quella persona, come abbia vissuto, cosa lo abbia portato ad essere in un modo o nell’altro, a comportarsi così o diversamente. Noi non sappiamo mai nulla degli altri, questa è la realtà. La mia opinione è che si nasca tutti come esseri puri, ma con un’anima che ha necessità di vivere e realizzare determinate esperienze per procedere nel fiume della propria vita, e in quelle successive. Al termine di questa vita, chiunque quella persona sia stata, ciò che è solo consentito è il silenzio.
Ho provato la stessa sensazione con la scomparsa di Sergio Marchionne. Non era una conoscenza personale, non apparteneva alla mia vita, eppure vi apparteneva lo stesso. Perché, quando sentiamo nominare spesso una persona, ne sentiamo parlare, ne vediamo il volto per anni, essa diventa parte del nostro stesso percorso. E’ lì, in un angolo della nostra vita, marginalmente, ma non possiamo dire che non ci sia. Di sera, però, guardando i telegiornali, mi ha preso uno sconforto quando è stato detto che la notizia della sua malattia è stata tenuta in gran segreto fino all’ultimo per non generare ripercussioni sul titolo della Fiat. E’ in quel momento, che il disagio è cresciuto. E’ come se sentissi che gli era stato tolto qualcosa, il diritto di ammalarsi e di ricevere tutta la solidarietà di quelle circostanze, il diritto a che la gente lo conoscesse come uomo, non come dirigente d’azienda. L’uomo, non il lavoratore. L’uomo, non un titolo azionario. L’uomo, con la sua vita, le sue gioie e i suoi dolori, che pure non conoscevamo. L’uomo, con la sua missione su questa terra. Avrà compreso il suo fine ultimo? Avrà saputo amare? Sarà stato amato? Si sentiva felice? E quali erano le sue domande più alte? Qui non si tratta di apprezzare o no il lavoro che ha svolto. Qui si tratta di fare silenzio. Si tratta di considerare quest’uomo per la sua esistenza, di augurare alla sua anima di proseguire in un cammino sereno, di liberarsi da ogni giogo. Io auguro a chiunque di non dover mai essere ricordato solo per ciò che ha fatto, ma per ciò che è stato. Auguro a chiunque di non dover morire in segreto per non sconvolgere il mercato. Auguro a questo giornalismo, a questa società estrema, di ritrovarsi e di tornare a riconsiderare il tutto con più cuore. Non voglio dispiacermi solo se un naufrago muore in mare, voglio dispiacermi anche per chi è costretto a morire per come il sistema vuole, parlando di una sua sostituzione mentre lui sta rantolando in un letto. Silenzio.